(Memoriale 2^ parte)

LA LOTTA PARTIGIANA NELLA VAL TREBBIA
ATTRAVERSO LA STORIA DI UNA BRIGATA

(7^Brigata Alpina Aosta)

II (BookCrossing, dall'Istituto Nazionale Ferruccio Parri)


Il 12 settembre la squadra fu spostata dalla Colletta a Buffalora, perchè l’osservazione aveva avvertito movimento di automezzi tedeschi sulla vicina statale N. 45. Dopo aver appostato i miei uomini in posizione atta a sorvegliare la strada, dove questa si snoda in una stretta curva e a batterla con il fuoco delle proprie armi, feci nuovamente ingresso in Bobbio, dove riuscii a catturare un caporale alpino a breve distanza dal suo posto di blocco del ponte Vecchio. Nel frattempo la squadra, appostata a Buffalora, apriva il fuoco contro un automezzo tedesco che non si era fermato all’intimazione di resa: centrato dalle raffiche dei due Barba e da quelle del mitragliere Sbarbaro, veniva messo fuori uso. Fu ucciso un capitano tedesco e ferito un maresciallo (Miiller) pure tedesco. Quest’ultimo, però, insieme al terzo occupante (Folkof) che era un tenente di nazionalità austriaca, in servizio nella Wehrmacht, riusciva a sottrarsi alla cattura. Insieme guadavano il fiume in località Pennello di San Martino, raggiungevano la statale e fermato con le armi in pugno il calesse di un civile, vi salivano sopra per guadagnare l’ormai vicinissima Bobbio. Fu in questo preciso momento che uscendo dalla parte di Valgrana con il prigioniero alpino, io mi imbattei in essi e li catturai, provvedendo nello stesso tempo ad inviare un civile in città dal dottor Silva con l’invito di recarsi a Moglia per prestare al ferito le cure mediche necessarie. Quindi con i tre prigionieri raggiunsi la squadra di Buffalora, mi recai nel luogo dello scontro e diedi ordine di occultare l’automezzo e la salma del caduto. A quest’ultima si sarebbe poi data la sepoltura con il favore della notte. Intanto per timore che qualcuno nel frattempo li sottraesse, al caduto erano stati tolti i valori, compreso l’orologio e l’anello e subito affidati al tenente Folkof, perchè a guerra finita provvedesse a consegnarli alla famiglia. Quest’atto rincuorò subito i prigionieri, che fino a quel momento nulla avevano compreso circa le intenzioni dei partigiani e valse a convincerli di essere caduti in buone mani. Infatti, come ebbero a dichiarare più tardi, in cuor loro erano convinti di venir subito passati per le armi: la stessa triste sorte che purtroppo i tedeschi riservavano ai partigiani catturati. Il dottor Silva, appena fu avvertito della necessità del suo intervento, pur consapevole del grave rischio a cui si esponeva, con un pretesto uscì dalla città e si affrettò a raggiungere Moglia. Qui prestò al maresciallo Müller le cure del caso e promise che sarebbe ritornato. La sua opera non sarà però più richiesta, dato l'incalzare degli eventi ed il rapido epilogo dei fatto. Comunque, le cure mediche ricevute, la consegna dei valori del compagno caduto, il trattamento di favore da parte dei partigiani, stupirono molto i due prigionieri e lo stupore aumentò ancor più quando più tardi si videro approntare due candidi lettini in una casa di Moglia ed offrire brodo e carne di pollo: vivande, di cui i partigiani della VII brigata non ebbero mai a godere il ristoro durante l’intiera lotta.

Nel pomeriggio della stessa giornata, dall’alta vai Trebbia, calava a Bobbio il battaglione alpino « Vestone » al comando del maggiore Paroldo. Veniva a rinforzare gli altri ormai logori nel fisico e nel morale. Insieme col battaglione alpino calavano alcuni reparti tedeschi e l’automezzo fermato a Buffalora ne costituiva l’avanguardia. Ormai i nazisti, dopo i gravi colpi inferri dalla VII brigata, più non si fidavano degli alpini o per lo meno li ritenevano privi di mordente. Occorreva perciò sorvegliarli da vicino, tanto più che in Bobbio erano apparsi dei volantini che invitavano gli alpini alla defezione. Li avevano scritti gli alpini partigiani per i compagni che ancora stavano dall’altra parte della trincea e noi, o personalmente, o per mezzo di collaboratori civili, li avevamo fatti circolare in città. Il battaglione « Vestone » nella sua marcia attraverso l’alta vai Trebbia, già si era fatto conoscere ed aveva acquistato triste fama. A Montebruno appena fuori dell’abitato aveva lasciato alle sue spalle il cadavere di un alpino appeso a un palo telegrafico. Si trattava di un disertore passato ai partigiani garibaldini e poi ucciso appena catturato. Voleva esser questo un monito severo per quanti ancora tentennassero nel morale e diretto a stroncare il moto di ribellione che già si faceva strada nell’animo delle truppe. A Gorreto, a Ottone, a Marsaglia e altrove si ebbero altri fatti di crudeltà e di violenza: prelevamento di ostaggi e percosse ai civili. La squadra della VII brigata, che quasi al completo era rimasta in postazione sui contrafforti rocciosi di Buffalora sulla parte sinistra del fiume, vide sfilarsi dinanzi tutto quanto il battaglione « Vestone », ma non apri il fuoco, data la troppo scarsa disponibilità di munizioni. Fu così che il nemico potè giungere indenne a Bobbio. Qui si chiesero subito notizie dell’automezzo tedesco che aveva preceduto nella mattinata, ma nella città nulla si seppe rispondere in proposito. L’eco del breve combattimento non vi era giunta probabilmente, come pure giunto non era l’automezzo misteriosamente scomparso : era stato visto partire da Marsaglia e poi nel tratto da Marsaglia a Bobbio si era volatilizzato. I tedeschi montarono su tutte le furie e se la presero con gli ufficiali degli alpini, i quali, per evitare il peggio, si diedero a fare ricerche.

Certamente qualche civile al corrente del fatto e spaventato dalle minacce, fu costretto a fare rivelazioni. Sta di fatto che lo stato maggiore del battaglione « Vestone », con forze considerevoli, ritornò sui suoi passi arrestandosi alla curva di Buffalora, il luogo preciso dello scontro. Dalle loro postazioni i partigiani della VII brigata assistettero al ritrovamento dell’automezzo e della salma: la distanza era così breve che poterono scorgere la piuma bianca, simbolo del comando, sul cappello alpino del maggiore Paroldo, ma anche questa volta non aprirono il fuoco. Il furore dei tedeschi però non si placò e diventò furore anche del Paroldo, che diede subito l’ordine di prelevare quindici ostaggi civili, fra i quali numerose donne; costoro furono rinchiusi in carcere e minacciati di fucilazione, qualora i partigiani non avessero restituito i prigionieri. Questi intanto erano stati trasferiti a San Cristoforo, in località più arretrata, e qui affidati alle cure di due donne, mia madre e mia sorella, mentre il partigiano alpino Cavallo, il solo che conoscesse la lingua tedesca, faceva da interprete. Quella del maresciallo Muller era una brutta ferita alla testa : per quanto di striscio, un proiettile gli aveva forato la scatola cranica. Il cervello non era stato offeso, ma il ferito sentiva delle fitte atroci e alternava momenti di lucidità ad altri di deliquio. Il trattamento riservatogli era quanto di meglio potessero offrire i partigiani, ma certamente insufficienti erano le cure. Si rendeva necessario il ricovero in ospedale e questo fu il pensiero che maggiormente mi preoccupò. Nella mattinata del 14 settembre il maggiore Paroldo chiese un incontro, al quale ben volentieri aderii, tanto più che in mani nemiche, oltre agli ostaggi civili, si trovavano prigionieri tre partigiani. Di questi, due erano garibaldini catturati nei dintorni di Marsaglia, dei quali uno (Lupi) era ferito. Il terzo, di nome Prati, era un alpino disertore passato alla VI brigata e poi catturato nella zona del Penice. Per quest’ultimo, specialmente, la sorte era ormai segnata: il triste esempio dell’alpino di Montebruno lo faceva in tutto presagire. Infatti, processato per direttissima in quanto disertore, era già stato condannato a morte mediante fucilazione alla schiena. Non restava che dare l’ordine di esecuzione. Il colloquio, preparato anche per l’intervento del clero di Bobbio, ebbe luogo in località Brada Marina, a circa un chilometro dalla città, lungo la rotabile del Penice; ad esso presenziarono due sacerdoti (don Balzarini e don Marini). Mi presentai puntuale, senza alcuna scorta e disarmato: la sola coccarda tricolore spiccava sul mio petto all’altezza del cuore e risaltava al sole della giornata radiosa. Il maggiore Paroldo, invece, si fece aspettare qualche tempo e contrariamente ai patti, portò con se la pistola, per cui si rese necessario l’invito a levarne il caricatore. Nell’incontro si trattò per prima cosa dello scambio dei prigionieri; ottenni che per i due tedeschi mi fossero consegnati i tre partigiani e fossero posti in libertà tutti gli ostaggi civili. Furono stabilite tutte le modalità dello scambio che avrebbe dovuto avere luogo l’indomani, in località San Martino.

Il discorso cadde, quindi, sulla città di Bobbio, della quale chiesi l'vacuazione immediata; sulla situazione generale della guerra in Italia e sulla posizione del tutto particolare nella quale si erano venuti a trovare i reparti alpini della « Monterosa ». Prospettai anzi al Paroldo l’opportunità del passaggio suo e dei suoi uomini ai partigiani, con le opportune assicurazioni che in tale caso sarebbe stato loro riservato l’onore di conservare le armi; sarebbero poi stati trattati a parità di diritti con i partigiani. A questa prospettiva, l’interpellato rispose piuttosto evasivamente; si capiva il suo travaglio interiore: doveva salvare il suo onore di soldato e nello stesso tempo sentiva una grave responsabilità verso i suoi alpini. La decisione di passare ai partigiani sarà presa solo più tardi, nell’alta vai Trebbia; la resa sarà fatta ai garibaldini di Bisagno, ma il germe era già stato gettato nell’incontro della Brada.

Ritornando ai prigionieri tedeschi, si dirà che la notizia del colloquio era stata però male accolta dal tenente Folkof per due ragioni che giustificavano la sua contrarietà: la sfiducia in Paroldo, che egli già ben conosceva, essendo stato istruttore dei reparti della « Monterosa » in Germania, e la decisione che in lui era già sorta di rimanere con i partigiani. Perciò scongiurò apertamente di non fidarsi del maggiore Paroldo dimostrando una diffidenza così grande che, mentre aveva luogo il colloquio, abbandonò San Cristoforo, seguì me a distanza appostando i partigiani con un mitragliatore, pronto a intervenire qualora mi fosse successo qualche cosa di imprevisto. Il buon trattamento avuto, l’aveva convinto che i partigiani non erano affatto quei banditi sanguinari che la propaganda nazista gli aveva fino allora fatto credere, ma piuttosto dei ribelli per quegli stessi ideali di libertà a cui la sua stessa patria anelava. Tentai di convincerlo della necessità dello scambio: si trattava di liberare degli ostaggi e dei partigiani prigionieri, si trattava di prestare cure più adatte e di salvare un compagno d’armi che egli già aveva sorretto e aiutato, quando era caduto ferito al suo fianco. Il 15 settembre, approntata una barella su cui adagiare il maresciallo Muller, con la scorta di alcuni uomini, lasciai San Cristoforo per scendere a San Martino. Questa volta furono però i partigiani che ritardarono all’appuntamento, dato lo stato pessimo delle mulattiere e la necessità di procedere lentamente, per evitare scossoni al ferito. Giunti sul luogo stabilito, dopo aver scambiato il saluto con gli ufficiali nemici e chiesto che si facessero avanti i partigiani prigionieri, vidi dinanzi tre individui più simili a cadaveri che ad esseri pieni di vita: dimessi nell’abbigliamento con gli scarponi privi di legacci, il ferito tormentato dal dolore prodotto da una cancrena al calcagno, smunti e pallidi in volto con gli occhi sbarrati e pieni di terrore; tenuti infatti, all’oscuro di tutto, non sapevano che quello sarebbe stato per loro un giorno felice, e memorabile.

Specialmente l’alpino disertore che, come si è detto, era stato condannato a morte ed aveva già fatto la confessione la sera innanzi, era convinto di essere stato condotto sul luogo dell’esecuzione. Le operazioni di scambio ebbero luogo celermente. Commovente e significativo fu il distacco del tenente Folkof, che rivolto a me mi fece dono del suo binocolo e cercò di abbozzare un saluto e di irrigidirsi sull’attenti, mentre i suoi occhi luccicavano e le sue membra tremavano, scosse dalla commozione e da un sussulto interiore. L’indomani, 16 settembre, il battaglione « Vestone » uscì al completo da Bobbio per rastrellare la zona del bosco del comune con lo scopo evidente di catturare la squadra della VII brigata, che ormai sapeva dislocata a San Cristoforo-Cerpiano-Colletta. I sospetti del tenente Folkof erano quindi fondati: non c’era da fidarsi del maggiore Paroldo e di quanti gli stavano intorno! Infatti, ottenuto lo scambio e individuata la zona in cui si trovavano i partigiani, l’avversario passava all’attacco in forze. Voleva ora la sua rivincita. Con il favore delle tenebre due colonne risalirono il corso dei torrenti Bobbio e Carlone per chiudere il bosco del comune in una morsa di ferro. Completato l’accerchiamento il nemico sparò, sparò molto, frugò in ogni cespuglio e in ogni piega del terreno, volendo stanare i partigiani, costringerli a scoprirsi e ad accettare il combattimento. Rimase invece beffato, perchè noi, prevista questa manovra a tenaglia, ci eravamo affrettati ad abbandonare la zona nel corso della notte stessa, trasferendo i partigiani in località Caborelli, a nord di Bobbio. Di qui organizzammo subito una nuova impresa. Infatti nella notte del 17 settembre con una squadra di pochi audaci riuscimmo ad incunearci fra i caposaldi nemici del ponte Dorbida, di Cascina Sciola e di Cascina Bosco, raggiungemmo la località di Corniate Valla e prelevammo quindici alpini con tutto l’armamento individuale. Nel pomeriggio dell’indomani, Barba 1° ed io in pattuglia, catturammo in località Rocche un altro alpino armato; quindi con parte degli uomini facemmo ritorno nella zona di Buffalora-Cerpiano-Colletta. A Caborelli fu lasciata una squadra al comando di Barba i° e di Mazzucco; fu questa che nel corso della notte del 18 settembre riuscì a penetrare nel caposaldo di Cascina Bosco e a prelevare ventisei alpini con numerose bombe a mano, moschetti tedeschi, due mitragliatori M. G. 42 e un mitragliatore Breda. Fra i prigionieri figurava un sottufficiale. II giorno 19 settembre i partigiani Russo e Mix, quest’ultimo uno dei « picciotti » della VII brigata, sorpresero una pattuglia nemica che aveva osato spingersi sulla statale N. 45, oltre il passo di Barberino fino all’abitato di Cassolo, e a catturarla al completo con buona dotazione di bombe a mano oltre alle armi individuali. C’era molto spirito di emulazione ormai fra i partigiani della VII brigata, per cui i più giovani cercavano di imitare gli anziani. Ma quella volta Mix avrà da me un severo rimprovero perchè, pur approvandolo in cuor mio, non volevo che i « picciotti » si esponessero.

Il 20 settembre fu la volta di Barba 2°, che non voleva essere da meno rispetto all’altro Barba. Con una squadra di pochi uomini riuscì nuovamente ad occupare la « quota 432 » e a catturare venti alpini. Fra l’armamento preso figurarono due mitragliatori M. G. 42, numerosi fucili, dei quali due semiautomatici, binocoli e bombe a mano. Ormai tutti i partigiani avevano bene appreso la tattica, fatti esperti della zona e dei modi d’attacco e con spirito di emulazione si producevano in azioni individuali. Più di tutti i due Barba, che meritano ora di essere presentati. Entrambi avevano assunto questo nome di battaglia in omaggio alla lunga e scura barba che portavano e che conferiva loro un aspetto caratteristico, deciso, inconfondibile. Barba 1° era in effetti Giuseppe Maio, un siciliano di Messina, catturato dai partigiani della III brigata mentre prestava servizio nella questura di Piacenza, e portato in prigione all’Alzanese, insieme con numerosi altri agenti. Questi saranno fatti fucilare nel vallone di Pentima, nell’alta valle Luretta, come ritorsione di atrocità commesse dai nazifascisti. Si salverà il solo Maio, in quanto il suo nome sarà cancellato dalla lista dei giustiziandi, perchè fra tutti risultava il meno compromesso con il nemico. Dopo qualche tempo trascorso all’Alzanese e a San Giorgio, dove era stato adibito alla mansione di cuoco, Barba 1° volle seguirmi; io lo accolsi volentieri dato che ero già stato impressionato favorevolmente dal suo aspetto spavaldo e deciso. In tal modo, da buon siciliano, diventò uno dei più ardenti partigiani della VII brigata. L’altro Barba era Cesare Annoni, nativo di Statto, nella bassa valle Trebbia. Aveva un carattere nettamente opposto a quello di Maio. Elemento alquanto taciturno, osservatore acuto e freddo calcolatore, dimostrava ottime attitudini al comando e sapeva conquistare e trascinare con l’esempio più che con le parole. La sua perfetta conoscenza della bassa valle Trebbia servirà per le operazioni verso la pianura, nella zona che da Monteventano-Rivergaro si spinge fino alla via Emilia e alla periferia di Piacenza.


Oramai le file della VII brigata si erano ingrossate con l’apporto degli alpini prelevati, che si convertivano in altrettanti partigiani convinti. Anche l’armamento era discreto, grazie alle armi sottratte al nemico. Soltanto il munizionamento era scarso; di qui il severo ordine di non farne spreco e di limitarsi a sparare soltanto in caso di estrema necessità, pena il disarmo immediato. La brigata, forte di oltre cento unità, era stata suddivisa in quattro squadre, al comando rispettivamente di Barba 1°, di Barba 2°, di Castelli e di Mazzucco. Le prime due costituivano le squadre di punta, in quanto formate dagli elementi più esperti e temerari; non avevano una sede fissa ed operavano nelle immediate vicinanze di Bobbio, costituendo intorno al nemico uno stretto semicerchio da Buffalora-Cerpiano-Colletta a Mazzucca- Caborelli. Le rimanenti squadre si trovavano su posizioni più arretrate e avevano compiti di rincalzo e di rifornimento : quelle di Mazzucca a Lagobisione-Degara, quelle di Castelli nella zona di Mezzano Scotti fino all’orrido di Barberino.

La vita dei partigiani era attivissima e delle più dure. Dato l'incalzare delle azioni e l’allarme continuo, essi dormivano saltuariamente solo quando potevano e non c’era orario destinato al riposo ; soltanto qualche ora di notte o di giorno, a seconda dei casi. Il riposo era fatto nelle cascine, sulla paglia, ma il più delle volte avveniva all’aperto, sul nudo terreno. Per mio ordine nessuno poteva spogliarsi: tutt’al più gli era concesso di allentarsi i legacci degli scarponi per dar ristoro ai piedi gonfi e fiaccati. Occorreva non farsi sorprendere dal nemico ed essere sempre pronti a balzare in piedi all’azione. Per la stessa ragione le armi, lubrificate ed in perfetta efficienza, dovevano essere sempre strette in pugno. Frequenti dovevano essere le ispezioni alle armi da parte dei comandanti di squadra e particolarmente curato il servizio di sicurezza e di pattuglia. Anche il comandante vi si sottoponeva, facendosi riservare il turno della notte, il più logorante per il tormento del sonno. Per il vettovagliamento non esisteva ancora un servizio logistico. Ancora non se ne era manifestata la necessità perchè vi provvedeva la popolazione della campagna, con l’offerta spontanea e gratuita di quanto poteva fornire. Furono davvero ammirevoli questi umili contadini nella loro prodigalità verso i partigiani, ma raro era il caso di avere il tempo per soffermarsi a mangiare un piatto caldo. Molti, premurosi e quasi insistenti erano gli inviti, ma la necessità di procedere oltre impediva di accoglierli. Si ringraziava, si accettava una pagnotta di pane, qualche frutto e si mangiavano nei bivacchi all’aperto o in marcia. Avevo, inoltre, severamente proibito ai partigiani di entrare nelle case poiché non si dovevano in alcun modo compromettere i civili esponendoli alla rappresaglia del nemico. Questi, infatti, aveva incluso la ritorsione fra le sue norme di guerra e ora sperava di stroncare il movimento partigiano con il privarlo dell’appoggio della gente contadina. Anche il servizio sanitario mancava e solo in caso di necessità si ricorreva al dottor Silva e al dottor Ricci Oddi, che era uno dei medici della divisione « G. L. ». Nonostante tutte le privazioni e le fatiche, il morale dei partigiani della VII brigata era dei migliori. Nella seconda metà di settembre la VII brigata ebbe la sua « mascotte ». Era costui Primo Alberti, che tutti chiamavano « Primeu », un poveraccio che una paralisi infantile aveva deformato al punto da rendergli quasi impossibile il movimento degli arti inferiori. Era del paese di Tamborlani dell’alta valle degli Scotti, dove sempre era vissuto, non tanto per la difficoltà di muoversi, quanto per il divieto che gli era stato fatto di recarsi a Bobbio. Era il tempo del razzismo, degli stivaloni, dei fez, dei petti in fuori, degli stalloni di pura razza e i fascisti, scimmiottando i compagni tedeschi, non potevano certo permettere che alla vista di tutti circolasse quell’essere così privo di fierezza marziale. Si era presentato a me un giorno mentre si trovava a Bocche. « Avrà fame... verrà per mangiare... aiutiamolo poveretto! » si era sentito dire da alcuni partigiani presenti, colpiti dal suo aspetto che era una chiara testimonianza di lunghi digiuni e di privazioni senza limite; ma che non venisse soltanto per mangiare e per farsi mantenere, ma fosse, invece, spinto da un sentimento molto più nobile, che era tanto più degno di lode quanto più miseranda era la persona che lo manifestava, lo dimostrò subito lo stesso « Primeu » quando, schermendosi di fronte alla mano pietosa che gli tendeva un pezzo di pane, estrasse di sotto la camicia per farmene dono un nastro per mitragliatrice tedesco, contenente le munizioni. L’aveva sottratto al nemico ed ora lo recava ai partigiani, perchè anche lui si sentiva uno di loro ed avvertiva la necessità di rendersi utile verso quelli che lottavano per quell’ideale di giustizia fra gli uomini, che pone il fratello vicino al fratello per quanto umile e disgraziato egli sia, perchè riconosce in tutti gli stessi diritti alla vita e scorge in ognuno l’immagine di Dio.

E non fu il solo atto magnanimo e coraggioso compiuto da « Primeu », perchè a quello ne seguirono altri e numerosi, al punto che egli venne considerato da tutti un vero partigiano combattente; egli traendo vantaggio dal suo aspetto fisico, penetrava nei caposaldi nemici, avvicinava gli alpini e mentre quelli si divertivano a schernirlo e si distraevano, egli rapido sottraeva munizioni preziose. Pure nella seconda metà di settembre, nella VII brigata furono arruolati il capitano medico Francesco De Luca e il commissario politico Gino Cerri. La VII brigata oltre che sui partigiani effettivi poteva contare su un discreto numero di collaboratori civili. Erano questi contadini di ambo i sessi e di tutte le età, i quali prestavano volontariamente la loro opera, si offrivano come staffette e recavano informazioni. Più di tutti si distinse Mario Fruschelli, attivo e coraggioso propagandista della causa partigiana. Di professione barbiere, egli aveva modo di avvicinare gli alpini nemici e li invitava senz’altro alla diserzione. Giungemmo così alla sera del 23 settembre quando decidemmo di attaccare ancora il posto di blocco che il nemico aveva ristabilito a Maiolo, con un plotone di alpini pionieri, rinforzato questa volta da reparti tedeschi. Era questa una posizione chiave, in quanto apriva la strada verso il castello Malaspina, sede del comando, che distava non più di trecento metri. L'impresa era importante e doveva essere compiuta audacemente contro un nemico forte ed in costante allarme. Gli uomini della VII brigata partirono da Cerpiano che già annottava; scesi al torrente Bobbio, sarebbero di qui risaliti verso la strada del Penice, dove appunto si trovava il posto di blocco da attaccare. Faceva freddo. Soltanto « Pippotto » fu messo al corrente della verità. Alle due donne invece fu detto che quella notte ci sarebbe stato solo servizio di pattuglia e per convincerle maggiormente lasciai il mitra per armarmi della sola pistola.. Esse assistettero mute alla partenza, sul loro volto, per quanto cercassero di mostrarsi serene, si leggeva l’apprensione e lo sgomento.

All’azione parteciparono dodici partigiani, fra i quali Barba 1°, tutti uomini già provati dal combattimento ed esperti in fatto di tecnica di attacco notturno; strisciando sul terreno dal torrente Bobbio la squadra risalì verso la posizione nemica. Era necessaria la massima cautela in quanto si doveva passare in vicinanza del caposaldo di Cascina Maiolo senza destare l'allarme. Superato questo ostacolo i partigiani si disposero per l’attacco; fermati i miei uomini, mi spinsi ancora avanti: ormai non c’era da superare che una siepe e un breve argine, in tutto qualche metro, quindi sarebbe stato il balzo improvviso e l’intimazione di resa all’avversario. Questa volta il nemico vigile stava all’erta tanto che le ombre di due armati si potevano scorgere al riparo dei pilastri di un cancelletto: erano le sentinelle. Nell’impossibilità di fare una manovra di aggiramento, perchè questo avrebbe portato i partigiani a scoprirsi maggiormente, decisi per l’attacco frontale e balzando in piedi gridai al nemico di arrendersi. Rispose il lancio di un grappolo di bombe a mano; tutto si era svolto in modo così repentino che gli avversari colti di sorpresa ed assaliti dalla paura, non ebbero il tempo di riflettere: tolta la sicurezza alle bombe si erano affrettati al lancio senza aspettare gli attimi necessari. A questa disattenzione del nemico dovetti la vita, perchè esso mi permise di buttarmi a terra prima della deflagrazione. La più centrata delle bombe scoppiò a breve distanza, ma i solchi del terreno ne limitarono l’effetto. Alcune schegge andarono a segno ugualmente, ferendomi alla gamba sinistra, ma solo leggermente, senza penetrare in profondità; più grave fu invece, come si ebbe a constatare più tardi, la lesione ai timpani prodotta dallo scoppio e dallo spostamento d’aria. Dopo il lancio delle bombe a mano, il nemico aprì il fuoco con tutte le sue armi e subito entrarono in azione anche quelle dei caposaldi vicini. Fui perciò costretto ad ordinare la ritirata e solo quando ebbi la certezza che tutti i miei uomini si erano posti in salvo e che non rimanevano feriti da ricuperare, mi ritirai anch’io. Difficilissima fu poi la manovra di sganciamento; infatti si dovevano superare in senso perpendicolare numerosi filari di viti. Questi erano tirati a filo metallico e quello inferiore era così poco alto sul terreno che mi trovai costretto a scavarmi il passaggio con le unghie. Alzarmi e buttarmi di corsa non potevo: i paletti che con rumore secco erano spezzati, ad altezza d’uomo, dalle raffiche avversarie mi consigliarono di desistere da tale proposito; occorreva quindi sottoporsi a quel logorante lavoro di lento avanzare, con la speranza che il nemico non abbassasse il suo tiro. Intanto nello strisciare mi si era sfilata la pistola dalla fondina: mi trovavo disarmato e non potevo certo ritornare indietro per riprenderla, impossibile, del resto, ritrovarla in quella oscurità. Non restavano ormai che pochi filari da superare per poter poi saltare nel campo sottostante e buttarsi di corsa al riparo di un argine defilato rispetto al tiro nemico. La situazione, tuttavia, andava aggravandosi di momento in momento. In mezzo al fragore degli scoppi e allo sgranarsi della mitraglia già si udivano infatti le grida baldanzose dei nemici che uscivano dalle postazioni per rastrellare il campo di battaglia, già si sentivano i loro passi avvicinarsi, già si vedevano le sciabolate di luce delle loro torce elettriche.

Non mi restava che raggomitolarmi su me stesso, celandomi alla meglio fra le foglie (più basse dei filari, e aspettare la sorte. Mi scoprì un alpino che mi puntò contro l’arma, ma, poi, convinto di trovarsi in presenza di un morto o di un ferito (la mia immobilità, la presenza del sangue glielo fecero credere) di peso mi sollevò per le braccia e cominciò ad urlare per richiamare l’attenzione dei compagni. A questo punto, però, io mi riscossi e reagii, colpendo l’avversario con tutte le mie forze e, sottraendomi alla stretta, mi buttai di corsa; fui inseguito ancora dal fuoco del nemico, rabbioso quanto inefficace: ormai un argine mi proteggeva dai colpi e mi permetteva di procedere celermente verso la salvezza. Da Maiolo raggiunsi prima Verneto dove sapevo di trovare la famiglia del dottore Andrea Bellocchio che mi avrebbe medicato le ferite. Quindi nella notte stessa mi diressi verso Ceripiano per riunirmi ai miei uomini. In Bobbio ritornai ancora, di notte e di giorno, per prelevare uomini, armi, materiale, per assumere informazioni sul luogo e studiare i piani di attacco. Molti civili mi vedevano e mi aiutavano, ad essi infondevo coraggio e fiducia. Per i nemici divenni invece una vera ossessione; dicevano di avermi visto nei luoghi più disparati senza però essere mai riusciti a catturarmi e vivevano sempre nell’incubo di una mia apparizione improvvisa. Il giorno 27 settembre il nemico effettuava una forte puntata offensiva sulla riva destra del fiume Trebbia, con l’intento di annientare la IV brigata. I reparti alpini con il favore della notte uscivano da Bobbio dalla parte del ponte di San Colombano, guadagnando quota celermente e già all’alba raggiungevano l’abitato di Gavi, sede del comando partigiano. Il comandante Virgilio Guerci e i suoi uomini, per quanto colti di sorpresa, riuscivano ugualmente a sottrarsi alla cattura e senza accettare l’impari combattimento, data la sproporzione delle forze in campo, ripiegavano in posizioni più arretrate. Questo fatto irritò molto gli avversari, contrariati per il mancato combattimento. Un reparto che si era spinto fino a Roncaiolo, in quel di Cassolo, sorprendeva in tale località due partigiani, i fratelli Rossetti, e subito li passava per le armi. Appartenevano entrambi alla III brigata ed erano diretti a Gavi per conferire con il comandante Guerci.

Dopo aver razziato i piccoli centri abitati della zona e terrorizzato i civili con i loro spari e con ogni sorta di angherie, verso mezzogiorno le colonne nemiche erano già di ritorno alle basi. A questo punto però la colonna che scendeva in città, percorrendo la mulattiera dell’Erta, proprio in faccia a Bobbio dall’altra parte del fiume, riusciva a sorprendere tre partigiani della IV brigata. Tagliati fuori dal grosso della loro formazione, si erano infatti riparati fra i costoni rocciosi di cui è ricca la zona, nella speranza, purtroppo vana, di trovarvi un asilo sicuro. Ne seguiva uno scontro armato e, mentre un partigiano, Mozzi, poteva miracolosamente salvarsi, un suo compagno, Ridella, cadeva ucciso e l’altro, Platè, era ferito e fatto prigioniero.

Intanto l’eco degli spari richiamava da quella parte l’attenzione degli altri avversari rimasti in Bobbio, ma questi inesplicabilmente cadevano in un errore che risulterà per loro fatale. Infatti, scambiati gli alpini che rientravano per partigiani e convinti di trovarsi di fronte ad un contrattacco in forze, si affrettavano ad entrare in azione con i mortai, sparando dallo spiazzo del castello Malaspina. Troppo tardi sospenderanno il tiro e si accorgeranno dell’equivoco nel quale erano incorsi: un alpino era ormai caduto ferito dal fuoco dei suoi stessi compagni. Adagiato sopra una slitta insieme con il partigiano Platè, subito era trasportato a Bobbio, ma, mentre si provvedeva a ricoverare il primo e a prestargli le cure necessarie, il secondo era lasciato fuori dal cancello dell’ospedale, a morire per dissanguamento poiché il tenente medico Zannier con freddo cinismo si era rifiutato di soccorrerlo e di prestargli la sua assistenza. Anche la ferita dell’alpino era però grave e malgrado le cure avute si rendeva necessario il ricovero in un ospedale più attrezzato, onde sottoporlo ad intervento chirurgico. Il maggiore Guarini comandante del presidio di Bobbio, metteva allora a disposizione la sua automobile, una Fiat 1100, per il trasporto a Voghera. Il viaggio si sarebbe compiuto l’indomani mattina, attraverso la strada del Penice e a bordo sarebbero saliti, oltre all’alpino autista, un sergente infermiere e lo stesso tenente Zannier. Purtroppo, anche questa volta il nemico agiva con leggerezza e commetteva un grave errore. Invece di chiedere un lasciapassare, che in tal caso sarebbe senz’altro stato accordato, preferì far tutto allo scoperto e tentare la sorte. Si cercò di forzare il passaggio attraverso una zona notoriamente insidiata dai partigiani della VII brigata, mandando alla ventura e allo sbaraglio un ferito gravissimo, senza pensare che qualsiasi contrattempo avrebbe potuto costargli la vita. In più si trascurò di munire l’automezzo del contrassegno della Croce Rossa e si affidò l’incarico dell’impresa al tenente Zannier, la persona certo meno qualificata per fare l’accompagnatore; un medico che il giorno prima si era macchiato del più odioso dei crimini, un ufficiale che non sarebbe mai sceso a trattative con i partigiani, che odiava e dei quali ora temeva la giusta vendetta.

Il caso volle che quella stessa mattina io e i partigiani Mazzucco e Raveraz, ci trasferissimo da Bocche a Colletta. Ignari di tutto, avevamo camminato lungo le mulattiere di Squera e già stavamo per imboccare la strada del Penice per percorrerla nel breve tratto da Valle a Cascina Campore, quando improvviso vedemmo avanzarsi un automezzo. Era quello con a bordo l'alpino ferito. All’intimazione di fermarsi, l’automobile prima rallentava, ma appena i partigiani abbassavano le armi e facevano l’atto di avvicinarsi per effettuare il controllo, subito riaccelerava per guadagnare la curva ormai vicina e sottrarsi in tal modo alla cattura. Come dichiareranno in seguito il sergente infermiere Peduzzi e l’alpino autista Lasi, era stato il tenente Zannier, con la pistola in pugno, a dare l’ordine di tentare la fuga. Quest’atto, più che indispettire i partigiani, valse ad aumentare in loro il sospetto, tanto che Raveraz, rapido, fece fuoco con il suo mitra. Un proiettile raggiungeva il tenente Zannier, ferendolo nella parte posteriore della mascella destra con fuoruscita dal labbro; l’avversario fu perciò costretto ad arrendersi. L’automezzo con i prigionieri era subito dirottato per la strada di Pegni per raggiungere prima Caborelli e poi Lagobisione. Constatata la gravità dello stato dell’alpino ferito, d’urgenza provvidi ad avvertire il comandante Fausto. Accadde allora un fatto che non solo destò molta meraviglia nel nemico, ma valse ai partigiani più di una battaglia vinta. Il ferito infatti fu trasportato a Bobbio, accompagnato dal dottor Landi, il medico della divisione « G. L. », che non solo lo restituirà ai suoi reparti, ma lo salverà dalla morte, operando in presenza degli stessi nemici attoniti. Questo atto di umana solidarietà fu la risposta dei partigiani a coloro che avevano negato assistenza a un loro compagno di lotta che, ferito, era caduto prigioniero. Il dottor Landi, bella figura di patriota, professionista di valore, uomo d’onore, di coraggio e di sentimento, cadrà poi prigioniero del nemico in vai Nure, durante un rastrellamento invernale; della sua sorte non si saprà più nulla. Era un ebreo che alle turpi vigliaccherie dei persecutori feroci della sua razza, contrapponeva un amore sviscerato per l’umanità senza distinguerla in amici e nemici, una dedizione completa alle sue sublimi idealità: era un esempio da cui si poteva trarre forza e incitamento.

Anche il tenente Zannier fu subito curato e, per quanto tenuto in prigionia, fu sottratto alle giustificate ire di quanti lo reclamavano per fame vendetta. Nella notte del 28 settembre una squadra di partigiani pionieri si portava con me sulla statale N. 45, nel tratto tra Buffalora e San Salvatore, e provvedeva a far saltare un ponte della medesima. Con questa grave interruzione la VII brigata veniva a tagliare i rifornimenti al presidio di Bobbio dalla parte del Genovesato e a completare l’isolamento dell’avversario, la cui situazione si faceva in tal modo sempre più critica. Nel pomeriggio dello stesso giorno con Mazzucco e Raveraz, mi recai sotto le postazioni nemiche dominate dal castello Malaspina e riuscii a catturare due alpini armati. Il giorno dopo, 29 settembre, l’avversario compiva con gli effettivi di ben due compagnie, una puntata offensiva nella zona di Lagobisione, con lo scopo evidente di allargare il cerchio che ormai lo soffocava. Mazzucco, vista l’impossibilità di resistere contro le preponderanti forze nemiche, decideva di far ripiegare i suoi uomini su posizioni più favorevoli, portando in salvo tutto il materiale e passando appena in tempo attraverso le maglie dei rastrellatoti. L’indomani raggiunsi però la zona minacciata, riconducendo i partigiani sulle posizioni abbandonate e staccando numerose pattuglie sul costone che da Roncofreddo scende a Cascina Vignola e quindi a Villa Guardia Morino, con compiti di osservazione e di sicurezza. Nel pomeriggio, infatti, le stesse due compagnie del giorno innanzi ritornavano sul posto per rastrellare. Venivano questa volta ributtate indietro, ma, purtroppo, in tale azione cadeva prigioniero il partigiano Sbarbaro.

Intanto in città era arrestato Mario Fruschelli,

perchè tradito da alcuni alpini nei quali aveva riposto fiducia; venne associato con Sbarbaro nelle carceri locali dove già da parecchi giorni languivano numerosi ostaggi civili. Erano questi per lo più genitori di partigiani, loro familiari, collaboratori, propagandisti, uomini di partito, la cui attività era stata scoperta o comunque sospettata. Il nemico ormai stava perdendo il controllo delle proprie azioni e scendeva ad atti di rappresaglie. In questo periodo, sempre a Bobbio, in piazza Fringuella, era data alle fiamme la casa del signor Draghi, per sospetta connivenza con i partigiani, il che non corrispondeva affatto a verità. Nella notte del 30 settembre, quattro squadre della VII brigata, al comando rispettivamente del sottoscritto, dei due Barba e di Mazzucco, penetravano profondamente nello schieramento avversario, provenendo da direzioni diverse. L’intento era quello di occupare la città di Bobbio. Erano in tutto cinquantadue uomini e si preparavano ad attaccarne un migliaio. Si volevano liberare i partigiani Sbarbaro e Fruschelli, nonché i numerosi ostaggi civili detenuti nelle prigioni e nello stesso tempio raggiungere un fine propagandistico. La data dell’attacco non era stata scelta a caso.

Infatti, con il 1° ottobre, il nemico si aspettava la rivelazione della cosidetta « arma nuova », ormai famosa perchè celebrata dai nazifascisti come il mezzo miracoloso capace di capovolgere in loro favore le sorti della guerra. I partigiani volevano invece fare ben altra sorpresa. Il piano era studiato con cura : mentre la squadra di Barba 2° avrebbe attaccato i caposaldi di Cascina Sciola e di Corniate Valla e quella di Mazzucca i caposaldi di « quota 432 » e di Cascina Maiolo, le altre due che erano le squadre di punta, dovevano aggirare il caposaldo di ponte Dorbida, quindi suddividersi per portare, con manovra a tenaglia, il loro attacco alla caserma della città. Qui infatti il nemico aveva trasferito il suo comando e teneva i prigionieri. I partigiani, avanzando lungo il greto del Trebbia, sulla sua sponda sinistra, eludendo la vigilanza degli alpini attestati al ponte Dorbida, superarono con relativa facilità questo ostacolo. Giunti poi in prossimità del campo sportivo si separarono in due gruppi e mentre quello comandato da Barba 1° riceveva l’ordine di arrestarsi nella posizione raggiunta, l’altro era condotto da me ad attestarsi sul piazzale che è sede della fiera del bestiame. Da qui ulteriormente avanzando, sarebbe entrato in piazza San Francesco e avrebbe assaltato la caserma dal lato sud; contemporaneamente, all’ora convenuta, la squadra di Barba 1° l’avrebbe investita dal lato nord; i partigiani di Mazzucco e di Barba 2° avrebbero invece attaccato i caposaldi situati più a monte, con lo scopo di impegnarli e di impedire il loro intervento in aiuto degli alpini assediati nella città. Con i miei uomini avevo già superato gli orti del monastero di San Francesco e raggiunto il piazzale della fiera, quando si sentì sparare dalla parte del campo sportivo. La verità si saprà solo più tardi quando Barba 1° riferirà sull’accaduto. Comunque quegli spari anticipati davano l’allarme al nemico, per cui la mia squadra era avvistata e subito presa sotto il fuoco delle armi.

La situazione di questi partigiani non poteva essere peggiore: sorpresi su terreno scoperto non potevano organizzare una difesa e contro di essi l’avversario tirava dall’alto, al riparo del muretto della strada di circonvallazione e dal muraglione che contorna gli orti del monastero di San Francesco. Si rendeva perciò necessario il ripiegamento verso il Trebbia e, poiché nessuno dei miei uomini era esperto del fiume e del nuoto, mi trovai costretto a trasbordarli singolarmente sulle mie spalle, sotto l’infernale fuoco nemico. Intanto anche l’altra squadra partigiana aveva dovuto ritirarsi ed era ripiegata verso Cascina Sant’Ambrogio. Barba i° raggiunto da me mi riferì di essere stato costretto a sparare, perchè sorpreso anzitempo da una pattuglia avversaria che stava percorrendo la statale N. 45, nel tratto dalla caserma al ponte Dorbida. Al « chi va là? » dato a brevissima distanza dal nemico, aveva risposto il suo mitra e un alpino era stato visto cadere ferito. All’indomani si saprà poi che in quella stessa notte una compagnia nemica stava preparandosi ad uscire dalla città, per rastrellare la zona di Coli, e che la pattuglia attaccata da Barba 1° recava un ordine operativo al reparto staccato al ponte Dorbida. Da parte nostra non si ebbero perdite e l’azione, per quanto non riuscita, conseguiva ugualmente un risultato : quello di far desistere gli alpini dal proposito di puntare su Coli.

Il giorno 2 ottobre fui convocato dal comandante Fausto a Bocche, dove erano già convenuti altri comandanti partigiani; precisamente: « Bandiera » ispettore generale delle formazioni partigiane del nord-Emilia, « Prati » comandante della divisione partigiana della vai d’Arda, il tenente Inzani e il tenente Pippo Panni. Mi trovai perciò in presenza di quattro divise alpine e di quattro barbe autorevoli, poiché, escluso Fausto, tutti erano stati alpini del disciolto esercito e quindi alla divisa e all’onor del mento tenevano moltissimo. Nel convegno si parlò della situazione di Bobbio e per risolverla essi prospettarono la necessità di un attacco massiccio con l’appoggio persino dell’artiglieria che il comandante « Prati » di buon grado avrebbe messo a disposizione. Evidentemente si volevano fare le cose su grande scala e farla finita una buona volta con gli alpini della « Monterosa », poiché essi costituivano effettivamente una spina dolorosa proprio nel cuore dello schieramento partigiano. Però in città, in Bobbio, frammista agli alpini c’era la popolazione civile e di essa non si poteva non tener conto. Per queste conisiderazioni espressi il mio parere contrario e insieme con Fausto insistetti sull’opportunità che la VII brigata continuasse le sue azioni così come le aveva condotte fino allora e da sola ne sopportasse il peso, attesi gli ottimi risultati già conseguiti. Alla fine questa tesi ebbe il sopravvento ed in tal modo fu scongiurato il pericolo di esporre la città e i suoi abitanti ad inutili distruzioni e lutti. Il comandante « Bandiera » nel congedarsi ebbe parole di elogio per i partigiani della VII brigata e mi fece dono di un paio di scarponi, poiché quelli che avevo erano ormai ridotti in uno stato pietoso.

Il giorno 3 ottobre la squadra di Barba 2° veniva staccata verso la pianura a Larzano nella bassa val Luretta, per rafforzare il distaccamento autonomo del comandante « Muro » che si trovava attestato in posizione avanzata nel castello di Monte-Ventano. Venivano così allacciati fra i partigiani delle due formazioni quei vincoli di fratellanza e di reciproca assistenza, che avranno modo di manifestarsi in tante circostanze, soprattutto nella battaglia di Monticello. I primi giorni dell’ottobre furono quindi impiegati nella sistemazione del distaccamento di Larzano, il quale oltre al compito detto sopra, avrà quello di condurre attacchi per procurare vettovaglie al grosso della VII brigata, costretto a vivere in zona notoriamente assai povera. La formazione, infatti, superava ormai le duecento unità e non si poteva certo pensare di approfittare più oltre della generosità della popolazione contadina. Occorreva ormai un vero e proprio servizio logistico; il merito di averlo organizzato fu principalmente del commissario Gino Cerri, coadiuvato dai partigiani Tom e Mix e dal sergente Nino Castelli. Ne faranno le spese i convogli nemici sorpresi sulla via Emilia e sulle strade della pianura. Nel frattempo il capitano medico De Luca provvedeva ad organizzare un servizio sanitario da campo, con infermeria e crocerossine. Già da tempo infatti, oltre a mia madre e a mia sorella, facevano ormai parte della VII brigata due valorose partigiane: Carla Lentoni e Alice Ricci, entrambe di Bobbio.

Il giorno 7 ottobre un distaccamento della III brigata di sua iniziativa effettuava un attacco contro il presidio di Bobbio. Raggiunta Villa Guardia Morina e schieratosi nei suoi dintorni, di là apriva il fuoco contro gli alpini asserragliati in città, principalmente contro quelli del caposaldo di ponte Dorbida. La distanza era però tale da rendere il tiro inefficace e bastarono alcuni colpi di mortaio sparati dal nemico per far desistere i partigiani dal proposito di continuarlo. La VII brigata, intanto, continuava a compiere azioni di disturbo; particolarmente attiva si dimostrava la squadra staccata a Buffalora, nel molestare il presidio avversario da quel lato e nel prelevare alpini isolati, appena fuori dai loro posti di blocco. In tali azioni fra tutti si distingueva il partigiano Raveraz, per la sua audacia e la sua intraprendenza. In data 20 ottobre la squadra di Barba 2° compiva la sua prima azione in pianura: si portava alla periferia di Piacenza e, in pieno giorno, riusciva a prelevare abbondante quantità di materiale, sottraendolo all’esercito repubblicano. In tale azione, oltre al comandante, si distinguevano i partigiani Piovesan, Piersanti, Fantoni e « Balilla ». II giorno 21 ottobre, in località Cassolo del comune di Bobbio, una pattuglia della VII brigata sorprendeva e catturava cinque alpini armati del battaglione « Aosta ». Durante la notte dello stesso giorno le truppe alpine del presidio di Bobbio, esauriti i viveri e visto ormai impossibile ogni rifornimento attraverso la strada del Penice e quella di Genova, evacuavano la città. Alle ore 6,20 del mattino le prime pattuglie della VII brigata col loro comandante facevano ingresso in Bobbio liberata.

Fu un tripudio per tutti: per i civili che nell’attesa della liberazione avevano palpitato e sofferto, per i partigiani che con tanta bravura si erano battuti ed avevano costretto il nemico alla fuga. Un pensiero doloroso rimaneva però nel loro cuore: gli alpini ritirandosi avevano trascinato seco in catene i partigiani Sbarbaro e Fruschelli. Saranno portati a Chiavari a languire in quelle carceri, sottoposti a percosse e a minacce di fucilazione. Avevo invano tentato di liberarli, prima nel fallito attacco notturno del 1° ottobre e poi attraverso trattative di scambio; in una lettera, indirizzata al comando del presidio di Bobbio e affidata al clero locale, ero giunto infatti a proporne lo scambio con il tenente Zannier. Purtroppo, lo scritto non giunse mai a destinazione.


IN BOBBIO LIBERATA


Occupata la città, la VII brigata, la cui consistenza numerica era ormai di 308 unità, veniva suddivisa in tre distaccamenti, più un reparto comando, una squadra pionieri, un reparto sanitario e uno addetto alla sussistenza e ai collegamenti. Il distaccamento di Barba 1° veniva staccato a Pietranera - Carana - Brugnello a sud di Bobbio, quello di Russo nella zona di Lagobisione - Vaccarezza - S. Maria, mentre quello di Barba 2° veniva lasciato, coi compiti già visti, nel settore Monteventano, verso la pianura. In città rimaneva il reparto comando diretto dal maresc. Mazzucco, unitamente a quello sanitario e a quello per i collegamenti e la sussistenza diretti rispettivamente dal cap. medico De Luca e dal commissario Gino Cerri. La squadra pionieri, comandata dal sottotenente Magistrati, veniva invece staccata al Passo Barberino, per riattivarvi il transito con passerella, a fianco del ponte distrutto, e poi a S. Salvatore, sempre con compiti di ricostruzione di opere che erano andate distrutte, di sorveglianza del traffico e di repressione di illeciti mercati. Io personalmente ero costretto alla città, dove ero trattenuto non tanto dalla presenza del reparto comando e dalla posizione centrale e di comodo che questo aveva rispetto alla dislocazione degli altri reparti della brigata, quanto dalla necessità di dovermi occupare anche dell’amministrazione civile. Infatti, dopo l’infelice esperienza fatta nel periodo della prima occupazione partigiana, in Bobbio più non era possibile trovare alcuna persona che volesse interessarsi direttamente e in posizione scoperta della cosa pubblica. I vari civili, per lo più esponenti di partiti politici, che già l’avevano fatto prima della battaglia del Penice, non volevano più essere compromessi. Messo al corrente della situazione, il comandante Fausto cercò di venirmi in aiuto, convocando nel Municipio di Bobbio i maggiori esponenti della città. Fu una riunione tempestosa e quando questi dichiararono apertamente che dell’amministrazione più non volevano occuparsi perchè la situazione era ancora troppo fluida e i partigiani non davano sufficienti garanzie di sicurezza, ma che tutti sarebbero stati subito pronti a farlo a guerra finita,io temetti il peggio, conoscendo l’irruenza oratoria del mio comandante, al quale per certo non facevano difetto il coraggio e la decisione. Infatti egli non mancò di apostrofarli con durezza; però alla fine le cose rimasero come erano, non solo perchè a noi partigiani non conveniva alienarci la simpatia dei politici, ma soprattutto perchè si sentì la necessità, oltre che il dovere, di soccorrere una popolazione che altrimenti sarebbe rimasta abbandonata a se stessa.

Fu così che io mi trovai ad avere in città poteri assoluti, sia di carattere militare che civile. Ancora Fausto mi venne in aiuto col suo consiglio, con l’invio di viveri di prima necessità e di medicinali che furono distribuiti all’Ospedale civile e ai civili più bisognosi. I partigiani della VII brigata provvidero ai servizi di sicurezza della popolazione, che in tal modo fu salvaguardata nei suoi diritti, stroncarono casi isolati di mercato nero che speculatori senza scrupolo andavano svolgendo tra Bobbio e il Genovesato, evitarono eccessi da parte di fanatici che avrebbero voluto calare in città per prelevare i fascisti locali e far razzia nelle loro case. A questo proposito dovetti intervenire personalmente più di una volta, facendo opera di persuasione, e a chi reclamava la testa di qualcuno, sempre feci presente l’esigenza di una richiesta scritta, di una denuncia circostanziata che giustificasse il provvedimento, poiché i partigiani non si dovevano porre sullo stesso piano dei nazifascisti. Se qualcuno era colpevole era giusto che pagasse il suo debito alla giustizia, ma a guerra finita, dinanzi a un tribunale regolare e con possibilità di difesa. Non si doveva in nulla imitare l’avversario, presso il quale ormai incontrastati dominavano il sopruso, il furore più cieco e l’istinto della vendetta. I partigiani dovevano sapersi differenziare perchè appunto in questa differenziazione stava la ragion d’essere del nostro movimento ed il suo trionfo.

Inutile dire che il popolo voleva la sua parte di giustizia, quando questo popolo, che per un ventennio aveva sopportato la tirannide fascista e ne aveva ormai assimilato i metodi, si dimostrava ancora immaturo ed incapace di giudicare con serenità, senza essere dominato dalla forza dell’istinto. Dietro a tutto questo, vi era per fortuna l’anima del popolo, la massa degli umili e dei contadini, la quale era sincera nelle sue espressioni di simpatia e di solidarietà, senza sottintesi, senza secondi fini, senza contropartite, senza riserve e senza timori. Generosa nel dare, eroica nel sacrificio, sublime nelle rinunce, nulla chiedeva se non libertà e li comprendeva, i partigiani, questi figli suoi, e li sosteneva nella lotta. Assicurato nel modo che si è detto l’ordine pubblico, la popolazione ebbe a godere di un certo benessere e di tranquillità. L’ammasso del grano, delle carni e dei grassi venne ridotto allo stretto necessario, per cui non si ebbero più quelle consegne massicce che fino allora le autorità nazi-fasciste avevano preteso, dovendosi ora provvedere al fabbisogno dei soli abitanti della zona liberata. Oltre al fatto che al nostro comando ripugnava l’idea di sfruttare i bravi contadini, che già tanto avevano dato con generosità e spontaneità, vi era poi la necessità di essere previdenti in vista dell’inverno d’armi che era ormai prossimo e già si rivelava particolarmente crudo. Perciò si preferì lasciare le scorte presso i privati, anziché farne incetta per poi ammassarle in magazzini di montagna. Che il provvedimento fosse opportuno apparirà non molto più tardi, quando gli avversari riusciranno ad arrivare un poco ovunque e ad impadronirsi delle scorte che molti partigiani avevano ammucchiato in luoghi ritenuti sicuri. Il decentramento delle derrate e dei viveri presso i contadini si dimostrerà infine utile anche per la conservazione e per l'occultamento relativamente facile che di essi si poteva fare. E sarà una fonte preziosa alla quale attingeranno la popolazione e i partigiani nei momenti più tristi, malgrado l’incalzare di eventi sfavorevoli e l’inclemenza del tempo.

Altro provvedimento che si dimostrerà opportuno sarà quello preso in merito ai mercati, favorendo l’importazione verso la zona controllata dai partigiani e proibendo l’esportazione verso quella nemica. In Bobbio liberata dovetti amministrare anche la giustizia. Si trattava però di piccole controversie di carattere civile che si risolvevano quasi sempre da sole, con un po’ di buona volontà da parte dei contendenti e con sentenze che lasciavano soddisfatte ambo le parti, che riuscivo a convincere alla pace e al rispetto reciproco. Persino ai permessi di caccia mi trovai costretto a provvedere, rilasciando gratuitamente ai cacciatori un documento che li autorizzava a portare la doppietta. Naturalmente si trattava di persone ben conosciute al nostro comando e che non avrebbero usato l’arma per altri fini. In città era stata subito ripresa la stampa dei due giornaletti, garibaldino l’uno e giellista l’altro, stampa che pure era continuata in qualche modo sui monti, dopo l’esodo del 27 agosto. Le due tipografie locali lavoravano a pieno ritmo, anche per preparare volantini di propaganda e carteggio vario. Quella « Bellocchio » lavorava per la Divisione « G. L. », mentre quella « Repetti », in seguito ad accordi presi col comando della Divisione « Cichero », era stata ceduta ai garibaldini, i quali avevano in città il loro ufficio stampa diretto da « Bini ».L’occupazione di Bobbio costituì un’altra affermazione di validità militare e civile della nostra brigata; a testimoniare l’importanza del fatto giunsero presto in città il colonnello Canzi e il comandante Fausto. Quest'ultimo mandò armi, munizioni, viveri e persino del denaro, col quale il commissario Cerri istituì un premio di L. 300 da assegnarsi a tutti gli alpini. Le armi erano tutte di fabbricazione inglese e provenivano da aviolanci effettuati all’Alzanese; non tutte però erano in grado di funzionare, poiché si erano guastate durante la discesa a terra, per cattivo funzionamento dei paracadute. Ma a Bobbio esisteva un’officina meccanica capace di renderle efficienti, come già un’altra si era del resto già segnalata fin dal mese di luglio nella riparazione di armi pesanti inviate dal comando della nostra Divisione e che poi tanto efficacemente servirono ai partigiani nel corso della battaglia del Penice. Gli indumenti mandati da Fausto erano in maggior parte calzoni, giubbotti e camicie inglesi, ma il loro numero si dimostrò insufficiente per vestire tutti gli alpini della VII brigata, i quali, proprio alla soglia dell’inverno, indossavano ancora la divisa estiva di tela kaki ed avevano ai piedi degli scarponi ormai frusti per il troppo cammino. C’era scarsità di coperte e assoluto bisogno di indumenti invernali, perchè la stagione già si rivelava inclemente per le pioggie e particolarmente rigida per il freddo. Di qui la preoccupazione mia e di Gino Cerri per cercare di provvedere, ma per quanti sforzi facessimo e per quanto grande fosse la generosità dei civili, le prospettive erano delle peggiori. Tutto difettava, dalle scarpe alle coperte, dagli indumenti ai viveri, dai medicinali alle munizioni e, in quanto a denaro, proprio non ce n’era. Gli aiuti del comando di divisione erano assolutamente insufficienti sia in quantità che in qualità, nonostante, qualche volta, le premure del comandante. Le munizioni poi sarebbero bastate per pochi giorni di combattimento, per cui si spiega una mia disposizione precisa di non farne spreco e di sparare soltanto a colpo sicuro, il che ebbe, purtroppo, talvolta anche l’effetto di dovere rinunciare a qualche occasione di scontri. Si andrà all’azione coi colpi contati e con la preoccupazione che essi non abbiano a bastare. Occorrerà avere i nervi ben saldi e attendere con l’arma al piede che il nemico si faccia più sotto, pur sapendo che oltre a disporre un maggior volume di fuoco esso poteva tirare da una distanza maggiore.

Solo il morale non difettava, e per tenerlo alto non c’era bisogno di iniezioni ricostituenti. All’Ospedale civile di Bobbio, come già nel periodo della prima occupazione della città, venivano ricoverati partigiani ammalati o feriti di tutte le formazioni e sempre vi trovavano la preziosa assistenza del dott. Silva, coadiuvato ora dal cap. medico De Luca. Anche suor Tommasina fu instancabile nell’adempimento del suo dovere procurando a noi partigiani anche indumenti e munizioni che era riuscita a sottrarre agli alpini della « Monterosa ».

Sul finire dell’ottobre, all’Ospedale di Bobbio veniva ricoverato anche il valoroso «Tundra», comandante dalla V brigata, gravemente ferito dallo scoppio di una bomba anticarro, avvenuto sull’autocarro con cui egli e i suoi uomini facevano ritorno da una vittoriosa azione fatta a Bressana. In segno di riconoscenza e di simpatia avemmo in dono da lui e dai suoi partigiani un certo numero di pelli di pecora, per confezionare giubbotti per i nostri degenti. Mentre il grosso della VII brigata stava sistemandosi nei nuovi quartieri attorno alla città di Bobbio, il distaccamento di Barba 2° che, come si è detto, si trovava dislocato nel settore di Monteventano e che nel frattempo era stato opportunamente rafforzato, continuava le sue azioni verso la pianura. Infatti, già fin dalla notte del 23 ottobre, insieme con una squadra del comandante Muro, il distaccamento era sceso a S. Nicolò a soli 5 km. da Piacenza. Mentre una pattuglia partigiana in divisa tedesca si recava in macchina alla stazione ferroviaria con lo scopo di far prigionieri e bottino d’armi, il rimanente degli uomini veniva suddiviso in tre pattuglie al comando di Muro, Barba 2° ed Emilio che si portavano all’attacco del locale dopolavoro, presidiato da 22 tedeschi. All’intimazione di resa la sentinella nemica dava l’allarme, ma il suo grido veniva stroncato a metà dalla precisa raffica del M.G. 42 di Piersanti, uno dei migliori mitraglieri della VII brigata.

I tedeschi, per quanto colti di sorpresa, opponevano però accanita resistenza, asserragliandosi nell’edificio e sparando dal terrazzo con due mitragliatrici pesanti. Interveniva ancora l’arma del bravo Piersanti che con una seconda raffica centrava i nidi avversari, facendo tacere le mitraglie nemiche e mettendo fuori combattimento i loro serventi. Dopo oltre un’ora di lotta gli alpini della VII brigata si ritiravano per ultimi, contrastando l’inseguimento da parte dei sopraggiunti rinforzi nemici, che ammontavano a due autocarri carichi di militari tedeschi, cui un’autoblinda in avanscoperta dava il suo appoggio. Da parte partigiana non si ebbero perdite, mentre quelle avversarie furono di 7 morti e 11 feriti. Contemporaneamente la pattuglia volante che aveva raggiunto la ferrovia riusciva a catturare una diecina di prigionieri tedeschi. Il giorno dopo le stesse squadre, non ancora paghe di quanto avevano operato durante la notte, ritornavano a S. Nicolò. Mentre la solita macchina, con otto uomini a bordo comandati da Nico, procedeva in avanguardia con lo scopo di dar via libera, i rimanenti partigiani si attestavano in una cascina alla periferia dell’abitato. Il contatto col nemico non tardò a manifestarsi e fu precisamente la pattuglia volante di Nico quella che incrociò due autocarri carichi di S.S. tedeschi, gli stessi che erano sopraggiunti in seguito allo scontro notturno.

Sfruttando la sorpresa e il fatto di trovarsi camuffati da soldati nazisti, la squadra partigiana dapprima li arrestava e poi li faceva proseguire in altra direzione, mettendoli ironicamente sull’avviso: « Attenzione, zona infestata da ribelli! » pronunciato in lingua teutonica. Intanto gli altri partigiani intercettavano una autocorriera tedesca e aprivano il fuoco contro di essa, costringendola alla fuga con morti e feriti a bordo. Dopo questo fatto, insistendo sempre nell’attacco, si portavano ancora innanzi, penetravano nell’abitato di S. Nicolò e lo occupavano temporaneamente. Alla stazione ferroviaria riuscivano a far prigioniero l’intero presidio tedesco, quindi, tagliati i fili del telefono e distrutti gli apparecchi di segnalazione, con tutta calma si mettevano in attesa dell’arrivo di qualche convoglio. Questo non tardò a sopraggiungere: era un treno tedesco diretto al fronte meridionale e carico di materiale. Fu subito fermato dagli improvvisati ferrovieri e tanto fu la sorpresa che il nemico non ebbe il tempo di accorgersi di essere stato giocato e non potè improvvisare alcuna reazione. Furono perciò catturati un centinaio di prigionieri tutti tedeschi, ad esclusione di un ufficiale e di un sottufficiale repubblicani. Anche il fuochista e il macchinista, che erano del genio tedesco, subirono la stessa sorte. Il convoglio venne tenuto fermo in stazione per l’intera giornata, mentre una squadra partigiana andava espugnando la casa del dopolavoro e asportando tutto il materiale colà ammassato. Ricco fu pure il bottino delle armi e delle munizioni, perchè, oltre a quelle individuali dei prigionieri, furono prelevate anche quelle dei magazzini. Condotta a termine la missione, i partigiani si ritirarono solo a notte inoltrata, poco prima dell'arrivo di una forte colonna corazzata. I prigionieri fatti venivano convogliati a Bobbio per essere impiegati nella ricostruzione di ponti distrutti e nel lancio di passerelle attraverso il fiume Trebbia, per consentire il transito e il traffico dei partigiani e dei civili.

A parte questo lavoro, erano trattati con grande umanità, secondo le norme internazionali che riguardano i prigionieri di guerra. Godevano dello stesso rancio partigiano, avevano potuto conservare tutti i loro averi, godevano di turni di riposo e non fu necessario metterli sull’avviso di non tentare la fuga, perchè, come essi stessi dichiararono, la loro nuova condizione si presentava migliore di quella in cui si trovavano quando erano soldati della Werhmacht. Avrebbero anzi voluto arruolarsi con noi partigiani, ma io non acconsentii alla richiesta per non porli dinanzi al dilemma di dover combattere contro i loro stessi fratelli. D’altra parte, come potevo fidarmi dei loro sentimenti? Mi sarebbe occorso un certo periodo di quarantena per meglio conoscerli. Si trattava per la maggior parte di elementi anziani e di padri di famiglia, ormai sfiduciati e stanchi della guerra. Una sera, mentre mi recavo a fare un’ispezione alle sentinelle dislocate a nord di Bobbio, lungo la strada per Piacenza, m’imbattei nella loro colonna che si avviava verso la città.

Ultimato il turno di lavoro al ponte Barberino e non trovati gli uomini della scorta armata che dovevano ricondurli ai loro alloggiamenti, da soli si erano inquadrati e anziché tentare la fuga, con passo cadenzato scandito dai comandi di un loro sottufficiale, avevano preso la direzione verso Bobbio. Questo fatto valse a convincermi che non sarebbero più fuggiti, perchè occasione migliore di quella non si sarebbe più presentata di certo. Il 27 ottobre il grosso della VII brigata veniva spostato nel settore di Monticello in rinforzo alla III del comandante Paolo, in previsione di un attacco nemico. Le informazioni pervenute al comando di divisione parlavano infatti di una azione dimostrativa, che i nazifascisti avrebbero tentato nella bassa val Trebbia, onde commemorare la data del 28 ottobre. Di qui la preoccupazione di Fausto e l’opportuno schieramento delle forze partigiane per opporsi; tuttavia, il nemico ebbe paura, non attaccò e si limitò a commemorare la ricorrenza entro le sicure e munite mura di Piacenza.

Sul finire del mese di ottobre un distaccamento della III brigata, comandato dal ten. Giorgi e comprendente la maggior parte dei carabinieri, che con Fausto avevano creato il primo nucleo della divisione « G. L. », passava in forza alla VII brigata. Questi partigiani erano rimasti favorevolmente impressionati per l’ordine che regnava nelle file della formazione alpina e soprattutto per l’affiatamento che univa tutti i suoi componenti; ora che avevano visto da vicino gli alpini a Monticello, con insistenza avevano chiesto di potersi unire a loro. Il comandante Paolo non sollevò obiezioni e, come era nel suo stile, accordò loro piena libertà di scelta. Questo nuovo apporto si rivelò notevole, soprattutto per l’arruolamento dei carabinieri, i quali in seguito ebbero a svolgere importanti compiti di polizia. In questo stesso periodo passarono in forza alla VII brigata anche alcuni partigiani bobbiesi già della IV brigata. In occasione della ricorrenza del 4 novembre avevo dato disposizioni ai comandanti dei vari distaccamenti perchè in ogni luogo la data venisse degnamente commemorata. Dove non esisteva monumento ai Caduti, gli alpini si limitarono ad una visita ai cimiteri locali e pochi in verità erano ormai quelli che non ospitassero qualche eroico partigiano.

A Brugnello, mentre i patrioti presentavano le armi davanti alla tomba del garibaldino Mazzoleni e di altri militari, Barba 1° rivolse a loro parole tali che suscitarono viva commozione, oltre che meraviglia e compiacimento in quei bravi montanari, non certo avvezzi ai discorsi e a cerimonie di carattere patriottico. A Bobbio, dopo aver presenziato alla Messa nella cattedrale e non al monumento, per ragioni di prudenza, i partigiani sfilarono per le vie imbandierate della città per recarsi poi a deporre una corona ai Caduti. Cerimonia semplice, ma suggestiva, che fu commentata favorevolmente dalla popolazione, in quanto accomunava nel ricordo e nel tributo di onore i Caduti di tutte le guerre ed esaltava quella continuità di valori morali che faceva di noi partigiani i continuatori del nostro Risorgimento e del nostro riscatto dagli invasori tedeschi.

Il giorno 6 novembre la squadra volante di Barba 2° riusciva a penetrare nella polveriera di Gossolengo e, mentre la truppa tedesca del presidio per paura dei ribelli arretrava e si rinchiudeva nelle casermette, i partigiani prelevavano 80 casse di bombe anticarro. Il giorno dopo, avendomi gli affari civili di Bobbio concesso un poco di vacanza, con Barba i° e col partigiano Scardi mi recai a Monteventano per ispezionare quel nostro distaccamento e per complimentarmi con Barba 2° e con i suoi uomini per le brillanti azioni che avevano sino allora compiuto. Partimmo da Bobbio sul mezzogiorno e arrivammo a sera tarda, dopo aver marciato di buon passo sotto la pioggia scrosciante. Lo strapazzo del viaggio e più ancora l’inclemenza del tempo mi procurarono un gran febbrone, per cui, giunto a destinazione, a malincuore fui costretto a rinunciare ai buoni piatti che gli uomini del comandante Muro mi avevano preparato e mi limitai, quella sera, alla sola ispezione dei partigiani e dei loro accantonamenti. Rimasi davvero meravigliato per l’ordine e l’affiatamento che vi regnava. Il distaccamento di Muro era alloggiato nel castello, mentre quello di Barba 2° lo era più a monte, nei casolari sparsi a ovest. Il primo era composto nella sua totalità da partigiani piacentini, bei partigiani a dir il vero, in ordine con la divisa, ben armati, disciplinati, allegri e gioviali. Avevano saputo crearsi tante comodità, dalla mensa alle brande, ed il loro accantonamento aveva in tutto l’aria di una caserma, con la rastrelliera per i fucili, con le marmitte per la cucina, con tavolate, sgabelli, piatti e posate per il rancio, con beccatelli per appendervi i panni vicino al posto di branda. Avevano persino dei libri per la lettura. Quello di Barba 2° non era da meno, se pure in proporzioni più modeste e più adatte alle esigenze e allo spirito degli alpini. All’indomani mi sentii non solo ristabilito, ma anche in grado di partecipare ad una azione sulla via Emilia, unitamente ad una squadra di Muro da lui stesso comandata. Partimmo da Monteventano di buon’ora a bordo di un autocarro per raggiungere Pontetidone, per disturbare il transito di una colonna nemica, che si sapeva diretta al fronte meridionale da Piacenza. Come si arrivò in prossimità della zona prescelta per l’azione, gli uomini balzarono dall’autocarro e procedettero a piedi. Muro con i suoi partigiani si appostò più a destra, presso il ponte sul fiume Tidone, mentre io, i due Barba e gli alpini prendevamo posizione entro l’abitato. Dopo breve attesa gli alpini Piovesan, Cavallo e Leggi catturarono una carretta militare con due cavalli e quattro soldati della divisione repubblicana « Littorio ». Nello stesso tempo io ed altri alpini facevamo prigionieri un ufficiale con tre militari della stessa divisione e riuscivamo ad arrestare e ad impossessarci di un grosso autocarro con rimorchio, entrambi carichi di grano destinato alle truppe tedesche.

Mentre si provvedeva a convogliare verso le retrovie i prigionieri fatti con il materiale catturato, sopraggiungeva dal lato di Piacenza una macchina tedesca con a bordo alcuni ufficiali della brigata nera. L’alpino Gerosa, che si era scoperto per portarsi verso il centro della strada, per intimare la resa ai nemici, veniva subito investito dal loro fuoco e cadeva grevemente ferito. A tal vista Piersanti non indugiava a sparare col suo mitragliatore, che crivellava l’automezzo e uccideva un sottufficiale che si trovava al volante. Quasi contemporaneamente Barba i° e Piovesan colpivano a morte i due ufficiali che erano a bordo con raffiche di mitra tirate da breve distanza. Intanto Gerosa veniva soccorso dai compagni e portato fuori dalla linea di combattimento: adagiato sopra un calessino e scortato da sei alpini, veniva subito inviato a Borgonovo per essere ricoverato in ospedale. Vi rimarrà degente sino alla Liberazione e si salverà dalla brutta ferita al polmone oltre che dalla caccia spietata degli avversari, grazie al coraggio e all’abnegazione di quei bravi medici e di quelle brave suore, che lo assisteranno sempre amorevolmente e lo occulteranno durante le frequenti ispezioni del nemico. L’eco del breve combattimento giunse però ai nazifascisti che facevano affluire sul posto, da Rottofreno, cospicui rinforzi dotati di mezzi corazzati. L’allarme veniva dato dai partigiani di Muro e, siccome questi si erano ormai ritirati, a noi della VII brigata, che per parecchie ore avevamo tenuta bloccata la via Emilia, più non conveniva insistere nell’azione, perciò ripiegammo a nostra volta.

A Monteventano mi fermai ancora un giorno per rincuorare il comandante Muro al quale i fascisti proprio pochi giorni prima avevano trucidato il padre in Piacenza; quindi col fido Barba i° feci ritorno a Bobbio. Il 14 novembre il partigiano Leggi 1°, uno dei « picciotti » della VII brigata, si travestiva da soldato repubblicano e tutto solo entrava in pieno giorno in Piacenza, la sua città. Trovato un autocarro militare, lasciato incustodito, vi balzava sopra e, dopo aver ingannato i nemici dei vari posti di blocco, prendeva la via dei monti, verso Monteventano. Quando però era ormai vicino alla meta e stava per coronare la sua brillante azione, per un incidente il camion ribaltava, per quanto senza conseguenze per il suo maldestro conducente, il quale non volle darsi per vinto dalla sorte contraria e con quella ostinazione che gli era propria, faceva ritorno a Piacenza per rifarsi di quanto era andato perduto, impadronendosi di un secondo autocarro, un Fiat 626, e con quello forzando ancora i posti di blocco nemici e giungendo indenne al suo distaccamento. Questa volta però l’audace partigiano non era solo: vicino a lui stavano due soldati tedeschi, i legittimi conducenti dell’automezzo, da lui fatti prigionieri. A questa azione del tutto personale altre ne seguirono da parte di Leggi 1° e di altri uomini del distaccamento di Barba 2°, sia dentro che fuori le munite mura di Piacenza. Ci avevano preso gusto ormai a scherzare col fuoco questi bravi partigiani e le loro azioni, per quanto temerarie, furono sempre coronate dal pieno successo tanto sapevano sfruttare la conoscenza dei luoghi e il fattore sorpresa.


IL RASTRELLAMENTO INVERNALE


Tra la fine d’agosto e i primi di settembre del 1944 i favorevoli eventi della guerra avevano lasciato sperare in una fine imminente del conflitto. L’offensiva alleata contro la « Linea Gotica » e lo sfondamento operato in più punti di questa, avevano anzi indotto i comandi partigiani a dar ordine ai reparti d’intensificare gli attacchi e a predisporre addirittura dei piani per l’azione insurrezionale finale. Le speranze rimasero invece purtroppo deluse quando ci si accorse che l’offensiva anglo-americana anziché essere risolutiva, si era andata esaurendo in una serie di attacchi di limitata portata territoriale e che la tanto attesa avanzata sarebbe stata procrastinata, rimandando tutto a primavera. A noi partigiani rimaneva quindi la terribile prospettiva di passare l’inverno in armi e la certezza che il nemico, favorito ora dalla stasi sul fronte meridionale, avrebbe scagliato contro di noi forze di gran lunga più considerevoli di quelle impiegate nei precedenti rastrellamenti estivi.

Il secondo proclama, col quale il gen. Alexander ci invitava a cessare le operazioni su vasta scala in attesa di eventi migliori, fu poi una doccia fredda che colse di sorpresa i nostri comandi, li indusse a cambiare i piani già predisposti e a provvedere in tutta fretta a quanto la nuova critica situazione andava invece richiedendo con urgenza. Ma come rimediare ormai, proprio alle soglie dell’inverno, alle gravi difficoltà di sistemazione e di rifornimento che si sarebbero incontrate, come poter dare a tutti i partigiani un adeguato equipaggiamento invernale e armi più adatte per una guerra che non fosse più la guerriglia che avevamo svolta sino allora? Mancava il tempo per farlo, ma soprattutto difettavano i mezzi e mancavano gli aiuti. Infatti le continue e pressanti richieste, particolarmente di armi pesanti, fatte dai nostri comandi agli alleati rimasero sempre senza esito alcuno, dando credito al sospetto che essi volessero abbandonarci proprio nel momento più critico. La conoscenza di una simile situazione, unita alla necessità militare di liberare le grandi strade dalla continua minaccia dei partigiani che impedivano ormai ogni transito ai reparti nazi-fascisti ed alla necessità di ridare respiro ad una provincia così importante per i rifornimenti e per le comunicazioni con le retrovie e che ormai era presidiata per i quattro quinti dai patrioti, indusse il comando tedesco a preparare un’azione che avrebbe dovuto essere risolutiva, senza economia di uomini e di mezzi. Il momento scelto non poteva essere più propizio, proprio l’inizio dell’inverno che avrebbe posto, per i motivi già visti, i reparti partigiani nelle condizioni più precarie, rendendone difficile l'occultamento e influendo sfavorevolmente sul fisico e sul morale.

Il tanto temuto rastrellamento ebbe inizio il giorno 23 novembre del 1944. Il nemico si servì di truppe mongole, composte da ex prigionieri di guerra catturati sul fronte dell’Ucraina e inquadrate da ufficiali e graduati tedeschi nella 64^ divisione «Turkestan». Si trattava di soldati abbrutiti dalla prigionia, cui ora il comando tedesco concedeva piena libertà d’azione, per spronarli al combattimento, il che, in una truppa priva di ogni base morale, doveva sfociare inevitabilmente nel furore più cieco, nella bramosia più famelica di preda e di stupro, facendo di essi dei novelli barbari ai quali nulla ormai più importava se non la distruzione e il massacro.

Del rastrellamento fece ampia relazione al comando del C.V.L. il comandante Fausto. Per quanto riguarda, invece, la mia formazione, devo precisare alcune circostanze che tendono a dimostrare che non tutto fu così avverso e disastroso in quei tristi giorni di fine novembre. Il giorno 24 novembre la VII brigata veniva messa in allarme e nella notte stessa partiva da Bobbio in rinforzo alla VI brigata nel settore di Romagnese. Era assente il solo distaccamento di Barba 2° che trovavasi, come si è detto, a Monteventano in appoggio del distaccamento autonomo del comandante Muro e già schierato in quel settore che fu uno dei primi ad essere investito, pur con attacchi di carattere diversivo.

All’alba del giorno 25 gli alpini della VII si schieravano nella zona di Casella - Costalta, sul costone compreso tra il Tidone e l’abitato di Cicogni, in posizione nord-est avanzata rispetto a Romagnese, per bloccare l’invasione avversaria nella valle che da Romagnese stessa per Casa Matti sale al Passo Penice, e in quella ancor più angusta che da Pecorara confluisce a Vaccarezza di Bobbio. Alla loro destra stavano gli uomini della IV brigata schierati sul crinale di monte Lazzaro e di monte Crigno a nord di Mezzano Scotti, mentre a sinistra, precisamente nel settore di Romagnese, si trovavano i partigiani della VI brigata. Per tutta la giornata gli alpini non riuscivano però ad entrare in contatto di fuoco coi nazi-mongoli, essendo questi ancor lontani, fortemente impegnati a superare la resistenza dei patrioti a Montemartino, a Trebecco e a monte Aldone, rispettivamente ad ovest e ad est del centro abitato di Nibbiano, che era ormai stato raggiunto e occupato dalla marea nemica. Alla sera dello stesso giorno 25 un dispaccio del capitano Giovanni recava l’ordine per la VII brigata di sgomberare la zona e di ripiegare su Bobbio, unitamente ai reparti della VI. La situazione era infatti apparsa delle più gravi, in quanto lo sfondamento era profondo e i partigiani erano ormai in rotta, una rotta disordinata e disastrosa, dinanzi a un nemico che appariva irresistibile, pronto a travolgere tutto col peso dei suoi battaglioni e col fuoco delle sue armi. Anche Pecorara era caduta, occupata senza combattere. Gli avversari non più contenuti minacciavano ora di puntare direttamente su Bobbio, attraverso la direttrice Pecorara-Cicogni-Vaccarezza. Con tale manovra, facilitata dalla presenza di strade e dalla natura dei luoghi, il nemico avrebbe chiuso la VI e VII brigata nella zona del Penice, isolandole dal resto della divisione « G. L. », il quale era già ripiegato sulla riva destra del fiume Trebbia, tanto più che i partigiani della IV brigata avevano nel frattempo abbandonato le posizioni del monte Lazzaro e del monte Crigno per ordine del comando divisionale. Perciò alla sera del giorno 25 di fronte al nemico si trovavano le sole VI e VII brigata, nella situazione critica di cui si è detto. Di qui la legittima preoccupazione del capitano Giovanni e il suo invito a sgomberare.

L’ordine, tuttavia, non fu ascoltato da noi e mentre la VI brigata si apprestava ad arretrare e ad abbandonare la zona di Romagnese e quella del Penice, la VII solo si limitava a spostarsi più a destra nel settore di Cicogni-monte Crigno-monte Lazzaro, il più minacciato, per bloccare l’avanzata avversaria sulla strada per Bobbio. L’alba del giorno 26, grigia per la fittissima nebbia che nascondeva ogni cosa, trovava gli alpini della VII brigata schierati a semicerchio da Praticchia a Cicogni e da Cicogni a monte Lazzaro. Attendevamo il nemico in postazioni improvvisate nel corso della notte; ma il nemico indugiava, non avanzava e non si scopriva. Allora gli stessi alpini presero l’iniziativa e si spinsero avanti con la loro ala sinistra. Nelle prime ore del pomeriggio si effettuò finalmente il primo contatto coi nazi-mongoli il che avveniva per merito del distaccamento di Barba i° che li attaccava con estrema decisione e riusciva a tenerli impegnati. Entravano subito dopo in azione gli altri reparti della VII, che avanzavano facendo fulcro su monte Lazzaro; l’abitato di Caprile fu preso d’assalto ed occupato; il nemico fu costretto a ripiegare in disordine su Pecorara e ad abbandonare in nostre mani armi e munizioni.

A questo punto il morale degli alpini era alle stelle; avevano voluto misurarsi da soli con gli avversari ed avevano retto alla prova; i civili intanto applaudivano, incitavano ed aiutavano come meglio potevano. Per sfruttare il successo ottenuto, la VII brigata insisteva ancora nella sua azione di attacco, ancora avanzava e occupava i centri abitati di Sevizzano e di Marzonago. A sera erano ormai vicini alla stessa Pecorara in posizioni favorevoli per espugnarla. Coi partigiani Funnel e Ragaglia mi portai in pattuglia avanzata sotto le case per preparare l’attacco decisivo contro il nemico che si era arroccato nelle case. Qui però mi raggiungeva subito il maresciallo Mazzucco con un ordine perentorio di Fausto, che mi imponeva di ripiegare. Questa volta non potei più disubbidire, consapevole del resto di trovarmi ormai solo di fronte all’avversario e di non poter contare su aiuti di sorta. Il ripiegamento venne fatto di notte, con ordine e senza sbandamenti, per quanto la situazione si palesasse drammatica. Il nemico che nel frattempo si era accorto del fatto, passava infatti al contrattacco, manovrava col favore della nebbia e delle tenebre, e col gioco di forti pattuglioni cercava d’impegnarci per poi aggirarci e scatenare la battaglia di annientamento. Si ebbero ancora scontri rabbiosi per quanto brevi a Caprile tra le pattuglie nemiche di avanguardia e la nostra retroguardia, ma i nazi-mongoli subivano la peggio ed erano costretti a desistere dall’inseguimento. La VII brigata, giunta indenne a Vaccarezza, veniva subito schierata tra monte Pradegna-Boschini-Casa del Monte e il Passo Penice, dove stabiliva una nuova linea difensiva a nord e nord-ovest di Bobbio. Dopo le batoste subite il nemico però ancora indugiava a farsi sotto, cercava di prendere fiato e di organizzarsi, mentre attendeva rinforzi.

Questo accadeva al mattino del giorno 27, per cui, approfittando della stasi e della situazione apparentemente tranquilla, mi recai a Perino dove mi era stato riferito che si trovasse Fausto con altri comandanti. Ebbi da lui lietissime accoglienze e rallegramenti per il valore con cui si erano battuti gli alpini. A Fausto riferii sulla situazione del settore che mi era stato assegnato e mi rammaricai del fatto che le altre formazioni non avessero persistito a resistere. C’era aria di disfatta, però, a Perino: un via vai di sbandati che i comandanti cercavano d’inquadrare e di organizzare frettolosamente, mentre notizie disastrose si scambiavano nei discorsi, accrescendo l’ansia del momento e la triste fama dei rastrellatori. Fausto stesso era ammalato, scosso dai brividi della febbre, il volto segnato dal dolore che era comune a tutti, ma i suoi occhi conservavano la primitiva fierezza e la sua voce era ancora salda nell’esortare e ancora sapeva imporsi e impartire ordini con lucidità sorprendente. Mi fece molto piacere constatare tutto ciò, in mezzo al generale abbattimento. Fausto fece il punto sulla situazione. Disse che essa era ancora soddisfacente verso la pianura, da Monteventano a Montechiaro, dove Muro, Barba 2° e la III brigata di Paolo ancora tenevano le loro posizioni, essendo la pressione avversaria non così forte come negli altri settori, ma disse che anche queste formazioni avrebbero dovuto ripiegare, per evitare di venir prese alle spalle dalla conversione che i nazi-mongoli avrebbero certamente operato verso Travo, calando dalle quote ormai occupate sulla riva sinistra del Trebbia. Soggiunse che si rendeva necessario il trasferimento di tutta quanta la divisione « G. L. » sulla riva destra dello stesso fiume, perchè una eventuale resistenza protratta sul massiccio del monte Lazzaro non era da ritenersi prudente e che era sua intenzione quello di stabilire una terza linea difensiva sui monti di Coli e di Peli. Fausto perciò mi rinnovò l'ordine di sgomberare la zona del Penice a nord e nord-ovest di Bobbio, e di abbandonare la stessa città per unirmi alle altre formazioni sulla riva destra del Trebbia.

Tuttavia la VII brigata rimase ancora sul posto per tante ragioni: si attendeva infatti il rientro degli uomini di Barba 2°, che avevano combattuto nel settore di Monteventano, si voleva far ancora azione di freno per dar modo e tempo al grosso della divisione « G. L. » di trasferirsi con tutta sicurezza e senza molestie nella zona di Coli-Peli ed approntarvi i nuovi sistemi di difesa, ma soprattutto c’era il fatto morale che gli alpini non volevano mollare, in quanto sapevano di non essere ancora stati battuti. Si trattava — e perchè nasconderlo? — di una questione di orgoglio e di prestigio, oltre che di puntiglio.

Nel pomeriggio del giorno 27 rientrava finalmente a Bobbio il tanto atteso distaccamento di Barba 2° e alla sera dello stesso giorno la VII brigata sgomberava la zona del Penice e ripiegava su Bobbio. Qui gli alpini sfilarono in assetto da combattimento dietro il tricolore sventolato da « Balilla » : non sembravano affatto uomini provati dalla lotta, passavano cantando e compatti nei loro ranghi. I civili non potevano credere ai propri occhi dinanzi ad uno spettacolo così inconsueto, che si dimostrava del tutto diverso da quello triste degli sbandati visto nei giorni innanzi. Il riapparire della VII brigata rincuorò e commosse un po’ tutti. In città, infatti, si era sparsa la voce che gli alpini fossero stati annientati, sacrificati nell’intento eroico di contenere l’avanzata nemica onde permettere il ripiegamento della divisione « G.L. ». II loro ritardo, poi, aveva dato credito alla notizia ed aveva accresciuto l'apprensione del momento. Perciò si spiega il perchè gli alpini venissero accolti come dei redivivi. Nel corso della notte, dopo aver trasferito tutto quanto il materiale nella zona montuosa di Marsaglia, la VII brigata evacuava la città per andarsi a schierare nel settore che da Costiere e Metteglia degrada verso San Salvatore e Marsaglia, sulla statale N. 45.

Poco dopo la mezzanotte, insieme col commissario Gino Cerri ed una pattuglia di nostri alpini, facevo però ritorno a Bobbio per prelevare dal municipio tutti i registri riguardanti l’ammasso dei grani e quello dei cereali, per impedire che cadessero nelle mani dei nemici. Questo provvedimento si dimostrerà oltremodo utile, perchè servirà a disorientare l’avversario, al quale verranno così a mancare indizi sicuri su cui basare la sua incetta di viveri, e nello stesso tempo servirà a permettere ai civili di conservare pressoché intatte le scorte. Ne beneficeranno i partigiani, e non solo quelli della VII brigata, nei momenti più tristi dell’inverno, perchè la popolazione li compenserà con una generosità senza precedenti.

Alle prime ore del mattino del giorno 28 le prime pattuglie nazi-mongole, calando più da Cicogni che dal Passo Penice, facevano ingresso in Bobbio e ne prendevano possesso. Ancora il vescovo, monsignor Bertoglio, si faceva incontro ai nemici per implorare clemenza, forte della sua autorità e del fatto che noi partigiani avevamo evacuato la città appunto per evitare di esporla ai lutti e alle rovine di una resistenza protratta all’interno delle sue mura. Il comando tedesco prendeva buon atto della accorata comunicazione e, contrariamente a quanto aveva fatto altrove, si asteneva dal compiere rappresaglie. Con l’occupazione di Bobbio l’avversario veniva a completare l’occupazione di tutta la zona sino a Rivergaro, sulla riva sinistra del fiume Trebbia. Anche la statale N. 45, nel tratto compreso fra le due accennate località, nonostante i furiosi attacchi condotti da reparti della III brigata e dai partigiani di Muro, cadeva sotto il controllo nemico. Alla sera del 28 novembre la situazione della divisione « G. L. » era la seguente: la I, la II e parte della III brigata erano ripiegate in val Nure, il distaccamento di Muro aveva preso posizione nella val Perino per difendere la strada che salendo al Passo del Cerro conduce a Bettola, nella val Nure, la IV, la V e la VI brigata si erano schierate nel settore di Coli-Peli, la VII infine si era attestata nella zona di Marsaglia-Casaldrino-Ozzola. La brigata alpina aveva scelto quel settore in considerazione del fatto che, partendo da Bobbio, vi sono due strade che conducono in quota sulla riva destra del Trebbia: quella più diretta che da Bobbio sale a Coli e quella più lunga che da Bobbio giunge a Marsaglia e quindi ad Ozzola. L’attacco nemico poteva verificarsi su una sola delle due direttrici oppure contemporaneamente su entrambe. Nel nostro incontro di Perino avevo perciò fatto notare a Fausto che lo schieramento partigiano nel settore di Coli- Peli presentava il suo fianco sinistro scoperto, perchè se i nazi-mongoli avessero risalito la statale N. 45 sino a Marsaglia e poi fatto una conversione su Ozzola e verso le quote che la sovrastano, avrebbero preso alle spalle le nostre linee e precluso ogni possibilità di ritirata verso la val Nure e la val d’Aveto. Si rendeva quindi necessario schierare la mia formazione a difesa della val Trebbia a Sud di Bobbio, per parare questa possibile manovra nemica, riservandomi nello stesso tempo di farla entrare in azione nel confinante settore di Coli-Peli, qualora questo fosse stato attaccato frontalmente.

La tanto temuta offensiva avversaria si verificò invece lungo la direttrice Bobbio-Coli. Durante la notte tra il 28 e il 29 novembre un battaglione di nazi-mongoli usciva da Bobbio attraverso i ponti di S. Colombano e di S. Martino e sempre protetto dalle tenebre riusciva a portarsi in quota, servendosi più che altro della rotabile di Coli. Un distaccamento della IV brigata, che era stato schierato in avanscoperta in località Buffalora-Cioccarella, col preciso compito di controllare le mosse del nemico e dare l’allarme ai partigiani retrostanti, nel corso della notte stessa disertava per passare ai garibaldini del Brallo. Questo fatto significò dar via libera agli avversari, che senza alcun disturbo poterono occupare l’abitato di Coli e portarsi sotto le posizioni tenute dai patrioti della IV, V e VI brigata, dal monte Capra a Peli. Per quanto colti di sorpresa i partigiani reagivano furiosamente e per un certo tempo riuscivano a contenere l’attacco, procurando perdite sensibili ai nemici, fra i quali cadde lo stesso maggiore tedesco comandante il battaglione. Troppo tardi però; infatti, a causa della diserzione dei partigiani di Buffalora l’avversario era riuscito a portare in quota anche le artiglierie e i mortai. Dopo intenso fuoco di preparazione mandava ora all’attacco le sue fanterie. Queste che erano state di proposito ubriacate si alternavano urlando in assalti violenti, anche all’arma bianca. Dietro le linee dei patrioti pure i civili aiutavano e sparavano. Anche don Bruschi, l’eroico parroco di Peli, era presente sulla linea del fuoco e non solo incitava e rincuorava, ma recava munizioni quando mancavano.

I nazi-mongoli già sembravano subire una nuova battuta d’arresto, quando una loro colonna, risalendo il corso del torrente Curiasca, riusciva ad infiltrarsi nello schieramento partigiano, e portarsi di sorpresa alle spalle di una postazione di mitragliatrici della IV brigata e a neutralizzarla. In tale azione cadeva abbracciato alla propria arma l’alpino Pietro Cattaneo, colpito da bombe a mano scagliate da brevissima distanza. Si saprà più tardi che la manovra era riuscita al nemico, grazie al tradimento di uno pseudo partigiano del luogo, che aveva guidato i nazi-mongoli lungo un sentiero che ben pochi conoscevano. A questo punto anche la VII brigata, alla quale era stato affidato, come si è detto, il lato sinistro dello schieramento della divisione « G. L. », entrava in azione col 1° e 2° distaccamento. Messi in allarme dall’eco dei furiosi combattimenti che si svolgevano a Peli, questi distaccamenti erano accorsi per primi e si erano schierati sul costone che da Metteglia conduce a Barche e a Costiere. Barba 1° portava anzi i suoi uomini nella zona di Telecchio e da lì riusciva a sorprendere col fuoco delle sue tre mitragliatrici una colonna nazi- mongola di rincalzo sulla rotabile Bobbio-Coli. Tenendola bloccata per sei ore le procurava gravi perdite e feriva mortalmente un ufficiale tedesco. Si portava poi più avanti, a breve distanza dal nemico e tentava d’aggirarlo. Mentre l’aggiramento era quasi condotto a termine, un dispaccio del capitano Giovanni ci avvertiva che gli avversari avevano ormai sfondato ad Averardi e a Cornale di Peli e che la nostra brigata era gravemente minacciata.

Per avere notizie più dettagliate e per accertarmi di persona di quanto stesse accadendo, insieme col partigiano Tom mi recai allora a Pescina. Trovai il paese pressochè abbandonato dai civili. Soltanto due donne, di cui una era moglie di un comandante di compagnia della IV brigata, si affacciarono dall’uscio di una casa per offrirci una pagnotta di pane, per dirci che tutti i partigiani si erano ritirati e per dissuadermi dall’avanzare oltre il paese. Nella tenue luce del crepuscolo brillavano intanto gli incendi delle case e delle cascine di Cornale e di Overardi e colonne dense di fumo appestavano l’aria. Malgrado le esortazioni delle due donne, con Tom volli spingermi verso Cornale, tanto più che da un’altura che domina l’abitato mi era parso veder scendere degli uomini armati. Indossavano pellicciotti bianchi di pecora, gli stessi che distinguevano i partigiani della V brigata. Potevano anche essere loro, perciò occorreva raggiungerli al più presto. Avanzammo, dunque, verso di loro e quando fummo a breve distanza, fiduciosi li chiamammo a voce. Questo per poco non ci costò la vita. Ci risposero lingue sconosciute e subito dopo raffiche rabbiose, accompagnate dal lancio di bombe a mano. Era evidente che si trattava di mongoli; allora anche noi sparammo per poterci sganciare e fuggire, il che ci riuscì senza alcun danno, data la conoscenza dei luoghi e l’ora ormai tarda.

Raggiunta la nostra formazione, diedi ordine di ripiegamento su Metteglia e Ozzola. Durante la notte si provvide a mettere in salvo tutto il materiale; all’alba dell’indomani, mentre nostre pattuglie di sicurezza contrattaccavano il nemico avanzante, gli alpini si portavano sulla riva sinistra del Trebbia nel quadrilatero Collegio-Poggio Rondino-Pietranera-Carana, ad eccezione di un distaccamento comandato da Gino Cerri che veniva lasciato nella zona di Ozzola-Castelcanafurone-Brugneto, ancora sulla riva destra del fiume. A Marsaglia riunivo i vari comandanti di distaccamento e provvedevo a dar disposizioni per il nuovo schieramento. In previsione di un peggioramento della situazione prospettavo come « ultima ratio » lo sfollamento della nostra infermeria da Pieve di Montarsolo a Selva di val d’Aveto. Per un equivoco, tuttavia, il ten. Giorgi, cui era stato affidato il comando della scorta armata, ritenne che il trasloco a Selva dovesse subito effettuarsi. Fu così che i nostri degenti si trovarono nella triste situazione di dover affrontare i disagi di un viaggio tutt’altro che agevole e subire le sconsolanti ripulse di quei poco patriottici montanari che ebbero a negare persino il pane e un magro cavolo dei loro orti. A Selva però la nostra infermeria si fermò per brevissimo tempo, perchè, appena messo al corrente dell’equivoco e degli spiacevoli inconvenienti che si erano verificati, io provvedevo a richiamarla a Pieve di Montarsolo e a raddoppiare la sua scorta armata, per evitare altre sorprese. Mentre la VII brigata assumeva il nuovo schieramento di cui si è detto, le altre formazioni che avevano preso parte alla battaglia di Coli-Peli si ritiravano dapprima sulle montagne di Ferriere e nell’alta val d'Aveto di poi. Con tale battaglia e con i combattimenti del Passo del Cerro nella val Perino si chiudeva la prima fase del rastrellamento invernale in pieno favore del nemico perchè la divisione « G. L. » cessava di esistere come unità organica. I suoi reparti, ridotti a gruppi sparsi, erano costretti ad occultare le armi, a vagare senza meta da una vallata all’altra in cerca di un rifugio sicuro e di un po’ di riposo.

Molti anzi fecero ritorno alle loro case ormai fiaccati e sfiduciati; il rastrellamento per molti era stato la prova del fuoco. Si potrebbero qui fare alcune amare riflessioni intorno alle cause di certe situazioni che si verificarono al momento in cui la prova apparve dura e tale da porre ciascuno di fronte a se stesso; dirò solo che nei momenti calmi e sicuri non si era certo badato molto alla necessità di fare una accurata selezione fra coloro che affluivano alle formazioni e ai loro comandi; tale massa di gente non certo qualificata, che era venuta per molte ragioni non tutte confessabili, pesò in modo negativo sulle sorti del movimento nell’ora grave dell’offensiva nemica. Ne venne di conseguenza che lo spionaggio nemico, sempre attivo, ebbe la più larga possibilità di operare in modo che, al momento dell'offensiva, il nemico si trovò in possesso di dati precisi per agire efficacemente. Era quindi evidente il vantaggio iniziale di cui potevano disporre i nazi-fascisti, trovandosi a combattere contro un avversario del quale tutto si sapeva. Per queste ed altre ragioni più specifiche i reparti si sfasciarono e quanti per ben sette giorni si erano battuti eroicamente si sentivano ora abbandonati al loro destino, esposti alla morte per freddo, per fame, per insidia nemica.

In tale situazione era per noi di conforto il fatto che la VII brigata si conservasse ancora intatta nei suoi ranghi e che il suo morale fosse alto. Riguardo alle cause che determinarono la disfatta della nostra divisione, altre se ne devono considerare. Fu certo insufficiente, quando non mancò, il collegamento con le formazioni partigiane dei settori confinanti, il che rese difficile il loro tempestivo intervento. Si notò anche allora la scarsa efficienza dei cosiddetti « Comandi Unici », che non favorirono certo lo sforzo unitario contro il comune nemico e permisero a questo di battere separatamente le forze partigiane, grazie alla tattica degli attacchi alterni. Ormai imbaldanziti dal successo, i nazi-mongoli si rivolgeranno subito contro le altre unità partigiane e riusciranno a sgommarle una dopo l’altra, sempre in virtù della solita tattica che permetteva loro di concentrare in un dato settore tutta la potenza delle loro armi e gli assalti dei loro battaglioni. Questa visione insufficiente del quadro sintetico delle vicende belliche ebbe un peso determinante e dimostrò una volta di più che se le formazioni partigiane potevano essere ottime nei loro piccoli reparti, non erano molto efficienti nella loro organizzazione complessiva, per le molte ragioni alle quali abbiamo accennato, e forse anche in virtù della natura stessa della lotta partigiana, che trova la sua forza nelle piccole unità mobili e battagliere, mentre la disperde quando si vuole orientare verso una concezione di piani strategici a vasto raggio.


LA SECONDA FASE DEL RASTRELLAMENTO INVERNALE


Con i combattimenti del 29 novembre si era chiusa in vai Trebbia la prima fase del rastrellamento invernale. Ad essa seguiva subito quella della caccia all’uomo, metodica, accurata e sistematica, condotta cascina per cascina, rifugio per rifugio, con lo scopo specifico di catturare gli sbandati e d’impedirne la riorganizzazione e la ripresa. Si aprivano in tal modo per i partigiani e per la generosa popolazione delle montagne le pagine più tristi di questa drammatica storia. Mentre i patrioti ormai stremati dai combattimenti, laceri ed affamati, braccati da tutte le parti, a piccoli gruppi o isolati si erano dispersi, la soldataglia nazi-mongola si era data ad ogni sorta di violenze e di angherie nei confronti della popolazione.

Furono incendiate case e cascine, razziato il bestiame dalle stalle, svaligiate le abitazioni, percossi i vecchi e i fanciulli, violentate le donne. A Costiere una giovane maestra che aveva saputo resistere malgrado le minacce di morte, veniva costretta a sedersi sulla piastra di una stufa arroventata e riportava gravissime ustioni. Soltanto il giorno dopo Barba 1° riusciva a raggiungere la poveretta, per soccorrerla e farla trasportare sino alla sua casa, in pianura, sotto la scorta di una nostra pattuglia di alpini. Il nemico non aveva però saputo sfruttare il successo conseguito nella battaglia di Coli-Peli. Dopo aver vanamente inseguito i partigiani oltre il monte Capra, sino alle varie frazioni di Pradovera, non sboccò infatti nella val Nure per quanto ne avesse ormai via libera; il giorno 1° dicembre era già di ritorno a Bobbio, dove trascinava come trofei di guerra lunghe file di animali predati. Parimenti nel settore assegnato alla VII brigata si era limitato a giungere sino alla linea di Costiere e Metteglia, ma non aveva insistito per proseguire oltre, verso Ozzola, e calare a Marsaglia, sulla statale N. 45.

Evidentemente credeva di aver sgominato completamente i partigiani e ripulita ormai tutta la zona. L’attacco per il passaggio alla val Nure verrà invece sferrato lungo la valle che da Perino sale allo spartiacque per poi calare direttamente a Bettola. Infatti, fin dal giorno 29 novembre, si ebbero scontri cruenti al Passo del Cerro, lungo tale direttrice, tra i nazi-mongoli e gruppi eterogenei di partigiani della divisione « G. L. », cui si unirono i patrioti della val Nure, accorsi nell’intento di sbarrare la strada per Bettola e impedire l’aggiramento delle altre formazioni che si trovavano stanziate nella parte bassa della valle. Orbene, se il nemico avesse effettuato la stessa manovra calando da Pradovera a Farini d’Olmo, sarebbe giunto ugualmente in val Nure e vi avrebbe imbottigliato un maggior numero di partigiani.

Dispersa nel modo che si è detto la divisione « G. L. » ed occupata tutta la val Trebbia da Bobbio a Rivergaro, l’avversario stabilì dei forti presidi nei maggiori centri abitati del fondovalle. Questi dapprima furono costituiti dagli stessi nazi-mongoli ed in seguito da truppe di rincalzo, soprattutto da bersaglieri repubblicani, i quali partiranno giornalmente dalle loro basi per compiere puntate sui monti, per braccare i partigiani superstiti e catturare gli sbandati. E’ ora giunto il momento di parlare dei numerosi prigionieri di guerra che la divisione « G. L. » era riuscita a catturare in tanti mesi di attività. Erano, questi, militari tedeschi o fascisti, esponenti del partito fascista, uomini dell’ufficio politico di Piacenza, spie del nemico; fra tutti primeggiava il federale Maccagni. Appena avuto sentore che il rastrellamento era prossimo, il comando divisionale aveva dato disposizioni alle brigate dipendenti affinchè tutti i prigionieri venissero convogliati verso Peli, affidandone la guardia ai partigiani della IV brigata.

A Peli quindi convennero tutti i prigionieri del campo di concentramento divisionale del Mogliaccio, unitamente a quelli che si trovavano in nostre mani a Bobbio. Dopo la battaglia di Coli-Peli tutti quanti furono trasferiti dapprima in val d’Aveto e successivamente a Selva. Approfittando però dell’incalzare degli eventi e del conseguente sbandamento dei partigiani, molti riusciranno a fuggire e a raggiungere le colonne nazi-mongole, altri invece verranno di nuovo catturati e passati subito per le armi. A Selva i pochi superstiti verranno uccisi dagli uomini della scorta armata, perchè sorpresi nel tentativo di evadere, aiutati in ciò dal parroco del paese, che resterà, purtroppo, compreso nel loro stesso massacro.

In questo periodo di tempo si ebbero le prime nevicate che peggiorarono le nostre possibilità di accantonamento. A Pietranera si sistemò il Comando nei locali della scuola elementare, mentre altrove gli alpini si alloggiarono nelle stalle, nelle cascine e nelle case di quella brava gente montanara. Il freddo si era però già fatto intenso e non pochi fra i miei uomini erano caduti ammalati. Alla mancanza di medicinali e di indumenti invernali si univa ora la penuria dei viveri. Per supplire alla mancanza del sale, di notte si inviarono nostre pattuglie a prelevare acqua salso-solforosa a S. Martino e a Fonte Pineta, nei dintorni di Bobbio, e con quella si riuscì a preparare qualche vivanda calda.

Per i primi cinque giorni del mese di dicembre l’attività della VII brigata veniva ridotta a quella di pattuglia e di sistemazione dei nuovi accantonamenti. Avevano ben diritto oltre che bisogno di un poco di riposo gli alpini, dopo una settimana intera di combattimenti, di notti passate senza dormire, di marce estenuanti fatte in condizioni avverse e col nemico incalzante. Tuttavia le nostre pattuglie si spingevano a Cerpiano, a Colletta, a S. Martino e persino a Valgrana e alle porte di Bobbio, dove improvvisavano posti di blocco sotto gli sguardi attoniti e pieni di apprensione dei cittadini, cui si voleva mostrare che si era ancora vivi, ancora attivi, che tutto non era andato perduto e che i partigiani non li avevano abbandonati. Queste comparse valsero infatti ad infondere coraggio e soprattutto la fiducia che si sarebbe ritornati.

In questo periodo si inserisce lo sfortunato tentativo dei garibaldini della divisione « Cichero » di occupare Bobbio, tentativo mancato, perchè i nazifascisti riuscirono a richiamare in aiuto forze maggiori. L’attacco su Bobbio, purtroppo, rese furiosi i tedeschi, svelando loro la presenza di forze partigiane ancora valide, che essi avevano invece credute annientate o comunque disperse. Perciò il giorno 7 dicembre i tedeschi puntavano con forze considerevoli su Marsaglia e riuscivano ad occuparla; quindi volgevano il loro attacco contro le nostre linee montane di Collepio-Poggio Rondino, ma qui venivano respinti e costretti a ripiegare nel fondovalle. Per misure precauzionali si rendeva però necessario lo sgombero del nostro ospedaletto da campo, che veniva così trasferito a S. Cristoforo. Nei giorni successivi il nemico risaliva da Marsaglia la strada dell’Aveto e la statale N. 45, invano contrastato dai nostri partigiani e da quelli garibaldini, che erano costretti ad abbandonare le posizioni di fondovalle per ripiegare sui monti.

La VII brigata difendeva però ancora i contrafforti che dal Brallo scendono verso la vai Trebbia e il torrente Carlone, non solo, ma spingeva pattuglie verso la stessa Bobbio, sulla strada del Penice e sulla statale N. 45 anche a nord della città, riuscendo a causare qualche perdita al nemico e ad ostacolarne i movimenti con attacchi improvvisi. Il giorno 12 dicembre, il nemico visto vano l’attacco frontale contro le nostre posizioni di Collepio-Poggio Rondino-Pietranera-Carana, effettuava un’ampia manovra di aggiramento. Mentre forze nazi-mongole risalivano da Ponte Organasco verso il Brallo, pressoché incontrastate dai garibaldini, altre forze costituite da tedeschi e da bersaglieri puntavano da Bobbio su S. Cristoforo per poi raggiungere il Brallo in quella direzione. Se la manovra fosse riuscita la VII brigata sarebbe stata chiusa in una morsa. Avuto sentore della minaccia incombente, diedi perciò ordine di ripiegamento a S. Cristoforo, tanto più che in questa località già si trovava la nostra infermeria, che andava difesa ad ogni costo. Il trasferimento venne effettuato di primo mattino in mezzo alla neve che aveva ripreso a cadere durante la notte.

Mancava il solo distaccamento di Gino Cerri, che era rimasto tagliato fuori dal grosso della brigata sulla riva destra del Trebbia, in seguito alla puntata nemica su Marsaglia, ma che ci avrebbe raggiunto in un secondo tempo nella zona di Mezzano dove intendevo spostare tutti i miei uomini. Snodandosi da Carana al torrente Carlone, la nostra colonna scendeva lentamente: sembrava una torma di condannati. Molti erano ammalati e si trascinavano a fatica sotto il peso delle armi.

Tutti avevano le guance scavate, gli occhi lucidi e cerchiati, mentre il corpo era tormentato da fastidiosi parassiti. I piedi gonfi, male o per nulla calzati, stampavano nella poltiglia di fango e di neve delle orme arrossate di sangue. In tutti quanti gli uomini pesava la stanchezza, la fame, il sonno e l’ansia del momento. Appena giunto a S. Cristoforo, vidi venirmi incontro allarmate mia madre e mia sorella. Erano fuggite poco prima da Cerpiano per avvertirmi che il nemico era uscito in forze da Bobbio e stava ora puntando su S. Cristoforo.

Mentre stavo già dando ordini per disporre i miei uomini a difesa della strada che dà accesso al paese, arrivava però un civile con notizie più recenti. Riferiva che i nemici, una volta raggiunto Cerpiano, avevano fatto una conversione verso Cascina Fontanini, anziché prendere la strada per S. Cristoforo. Il fatto che l’informatore fosse arrivato più tardi delle due donne, mi indusse a dar maggior credito alle sue notizie, cosa di cui tra poco dovrò pentirmi. Infatti, temendo che gli avversari risalissero da Fontanini verso la vetta del Bosco del comune per poi attaccarci dall’alto e quindi da posizioni favorevolissime, in tutta fretta mutai i miei piani di difesa. Si trattava ora di tagliare la strada al nemico e d’impedirgli di prendere quota. Perciò raccolsi una squadra di audaci e la trascinai meco, mentre affidavo il resto degli uomini al cap. med. De Luca per la difesa ad oltranza dell’infermeria, nell’eventualità che io non fossi riuscito nel mio intento.

Di corsa attraversammo la roccia di Costa Ferrata per sboccare sul costone di Costa Gallina che domina il versante da Cerpiano a Fontanini, e lì prendemmo posizione in attesa che il nemico si scoprisse: ma di esso, purtroppo, nessuna traccia. Venni invece raggiunto poco dopo dal cap. De Luca, il quale allarmatissimo mi riferì che gli avversari erano ormai giunti a S. Cristoforo e penetrati nella parte bassa dell’abitato. Non visti avevano marciato sulla strada segnalatami da mia madre e da mia sorella ed improvvisi erano sbucati in paese. Soggiunse che molti degli uomini a lui affidati erano fuggiti senza combattere, che la situazione era caotica e che egli ignorava quale sorte fosse toccata al nostro ospedaletto.

Con un’amarezza indicibile per la diserzione di uomini che ritenevo ormai sicuri — come tante volte avevano dimostrato , ferito nell’orgoglio per essere stato giocato dal nemico, pentito di non aver prestato troppa fede alle due donne che per prime mi avevano svelato la minaccia, angosciato per coloro che ammalati o feriti non potevano certo difendersi e che ora potevano pensare che io li avessi abbandonati, di corsa rifeci la strada per S. Cristoforo.

Poco prima del paese incontrai altri miei uomini : li fermai e li trascinai meco, mentre il fido Tom, minaccioso, puntava la sua pistola verso i più titubanti. La situazione per quanto critica poteva però essere rimediata. Una notizia gradita mi riferiva intanto che i nostri degenti erano riusciti a porsi in salvo, grazie all’aiuto dei compagni e soprattutto delle due crocerossine Alice Ricci e Carla Lentoni, che li avevano sottratti alla cattura già sotto il fuoco degli avversari. Questi stavano in parte appostati fra le prime case del paese; altri invece erano riusciti a catturare una nostra slitta e si erano raccolti attorno ad essa per esaminarne il carico.

Erano fermi però e non ardivano avanzare perchè alle loro prime nutrite raffiche già avevano risposto le fucilate di qualche alpino. In tutta fretta feci piazzare una mitragliatrice che affidai a Raveraz e subito ordinai di aprire il fuoco. Il nemico subì un primo sbandamento e cercò di porsi al riparo di muretti a secco e di altri ostacoli. Mentre Tom sempre furioso incitava gli alpini al combattimento, io restavo in piedi allo scoperto per meglio dirigere il corso della battaglia e per infondere coraggio. Ora il nemico rispondeva col fuoco di tutte le sue armi, ma purtroppo Raveraz dalla posizione in cui si trovava più non poteva colpirlo. Perciò ritenni opportuno agire di persona, portandomi con un fucile mitragliatore dalla parte del cimitero, ad ovest del paese. Di là avrei sorpreso di fianco gli avversari e li avrei costretti a stanarsi.

Non avevo sparato che qualche raffica quando avvertii presso di me la presenza di qualcuno. Credetti che si trattasse di qualche alpino venuto per darmi aiuto. Perciò senza voltarmi continuai a sparare. Gli avversari più prossimi non distavano più di 100 metri, ma resistevano tenacemente. Occorreva però insistere perchè alcuni erano già stati visti cadere colpiti e se ne sentivano le urla di dolore. Quando mi voltai per estrarre dalla cassetta un nuovo nastro di munizioni, vidi accanto a me mia madre e mia sorella.

Dunque, mi ero ingannato : erano loro le sopraggiunte, non già i miei uomini. Le due donne erano sbucate non so da dove e guidate più che altro dal loro istinto avevano saputo ritrovarmi per sentirsi sicure e più tranquille. In tutto silenzio si erano chinate dietro di me e mentre io ero intento a sparare si erano subito preoccupate di aiutarmi in qualche modo. Con le loro sciarpe di lana andavano infatti ripulendo dal fango i nastri del mio mitragliatore affinchè l’arma non s’inceppasse. In questo preciso atteggiamento io le scorsi quando mi voltai e allora non seppi più resistere, perchè con tutte le mie forze le abbracciai per tenerle più basse di quanto già lo fossero, vinto dalla paura che potessero venir colpite, più ancora che dalla commozione.

La mia arma cessò allora di sparare, ma d’altra parte più non si rendeva necessaria perchè quella del bravo Raveraz, unita a quelle degli alpini accorsi, era riuscita nel frattempo a sgominare il nemico e a costringerlo a ritirarsi, verso il torrente Carlone dapprima e verso le alture di Carana di poi, per portarsi fuori tiro. Subito dopo il combattimento raccolsi i miei uomini in attesa degli sbandati; constatai quindi che da parte nostra non si erano avute perdite, mentre quelle dell’avversario, per quanto non controllate, poiché i morti e i feriti erano stati portati via, dovevano essere sensibili, come ebbero a riferirmi in proposito i contadini del luogo.

Dopo aver raccomandato a mia madre e a mia sorella di riparare a Cascina Pra’ d’Arfe dove avrebbero trovato gente amica, conducevo i miei alpini a Cernaglia sul versante ovest dello stesso Bosco del Comune. Qui giungemmo che già annottava e per ristorarci mangiammo patate lessate, che era quanto di meglio potessero offrirci quei poveri ma generosi contadini. Ma i miei uomini erano ormai allo stremo delle loro forze; dopo aver mangiato si sdraiarono per terra, sperando in un sonno ristoratore che rinfrancasse il fisico, che fugasse gli incubi e calmasse lo spirito. Invece poco dopo sentirono tuonare ancora la mia voce che ordinava di rimettersi in marcia. Fui sordo alle rimostranze e alle implorazioni. Chi già dormiva venne scosso con forza e risospinto in cammino.

Si riformò la colonna, con al centro i feriti e gli ammalati trasportati su slitte: triste colonna che si snodava lentamente tra i tornanti della mulattiera nel silenzio alto di una notte rigidissima. Da Cernaglia scendemmo ad Erbagrassa sul greto del torrente Bobbio e poi sempre di notte, in mezzo a disagi di ogni sorta e alla neve abbondante, a piccoli gruppi attraversammo guardinghi la strada del Penice, sulla quale stava svolgendosi un movimento incessante di colonne tedesche, per raggiungere la zona di Lagobisione, a nord di Bobbio.

Validissimo fu in tale evenienza l'aiuto dei contadini e soprattutto quello dell’alpino Ragaglia, che, esperto dei luoghi perchè bobbiese, fece più volte con me la spola per guidare i singoli gruppi nell’attraversamento del tratto più pericoloso della strada. Il provvedimento preso di sgomberare al più presto la zona del Bosco del comune, gioverà agli alpini, quando a tutti apparirà chiaro il perchè: mentre la colonna nemica che ci aveva attaccato a S. Cristoforo e che si era poi spostata a Carana, riceveva rinforzi e con questi tornava a risalire il corso del torrente Carlone, un’altra colonna, partendo da Bobbio, risaliva il torrente omonimo.

L’avversario ripeteva in sostanza la stessa manovra effettuata a suo tempo dal battaglione « Vestone » della divisione « Monterosa », per rinchiuderci senza via di scampo nel Bosco del Comune e questa volta con maggior possibilità di successo per lui, dato che eravamo molto stanchi e ormai provati dal combattimento. Il nemico fu, così, invece, deluso. Riguardo, allo sbandamento che sulle prime si era verificato fra i miei alpini a S. Cristoforo, esso fu dovuto più che altro all’indegno comportamento di qualcuno che non solo allarmò subito i suoi compagni con notizie esagerate circa la consistenza numerica del nemico e la potenza delle sue armi, ma si diede anche alla fuga. Si trattava di persona sospetta, un alpino disertore dalla « Monterosa », che noi avevamo trattenuto, sotto sorveglianza perchè infido; dopo la battaglia di S. Cristoforo fu allontanato definitivamente dalla nostra brigata. Riparò alla Riva di Bobbio, in casa di civili; poco più tardi, però, simulando ancora la cattura, si fece di proposito prelevare dai bersaglieri del presidio nemico di Bobbio e li guidò a scoprire un nostro piccolo deposito di armi in località Altarelli di Mezzano Scotti.

Successivamente rimase sempre coi nemici e soltanto a guerra finita fu da noi perseguito per infliggergli la giusta condanna. Non dovrò durare molta fatica a ricercarlo perchè il caso me lo farà comparire dinanzi proprio nell’aula del Tribunale di Alessandria, nel corso del processo intentato contro il ten. Ragazzo, già comandante del famigerato presidio dei bersaglieri repubblicani in Bobbio ed egli stesso feroce rastrellatore di partigiani. Fidando più che altro nella sua buona stella e ostentando la sua solita faccia tosta, l’alpino disertore vi compariva come teste in difesa dell’ufficiale nemico, ma dopo le mie rivelazioni e le mie accuse il P. M. subito lo faceva arrestare e condannare per direttissima.

A Lagobisione presi la decisione di mettere in libertà alcuni alpini sui quali non si poteva più fare affidamento, perchè troppo spossati e scossi nel morale. Evidentemente non vi poteva più essere posto per costoro, in quanto il futuro si annunciava dei più tristi e siccome non si poteva certo pensare che essi potessero raggiungere senza pericolo le loro case, li accantonai presso famiglie di contadini che generosamente li aiutarono e li assistettero. Passata la burrasca molti verranno ripresi in forza, ma nel frattempo passeranno l’inverno al riparo e senza più ansie, dedicandosi a lavori di carattere artigianale o agricolo.

Gli effettivi della VII brigata venivano quindi ridotti nel numero; si provvedeva frattanto a sotterrare le armi diventate superflue. Nei giorni successivi la formazione veniva suddivisa in piccoli nuclei che si attestavano nell’ampia zona che da Mazzucca e Caborelli, immediatamente a nord di Bobbio, si estende sino a Fosseri nella valle di Mezzano Scotti, in modo da eludere lo spionaggio nemico che era allora molto attivo, per non rendere troppo palese la nostra presenza e per dar maggior scioltezza di manovra alla stessa brigata. Il comando di brigata veniva intanto messo a Chiappelli, ma al mio posto lasciavo il maresc. Mazzucco, poiché io preferivo dedicarmi al servizio di pattugliamento come appunto richiedeva la situazione.

Giornalmente e anche di notte, con esigue pattuglie mi portavo sul Costone di Pegni e su quello di Villa Guardia Morina, oppure al Passo di Barberino per controllare i movimenti del nemico da Bobbio al Passo del Penice e da Bobbio verso Piacenza. Fu appunto nel corso di uno di tali servizi che, passando nei pressi di Caborelli, ebbi ad incontrare una donna in lacrime, che correva disperatamente in cerca di aiuto. Era una povera madre fuggita di casa per invocare soccorso, perchè le sue figliole si trovavano sole alla mercè di due turpi mongoli ubriachi. Con Barba 1° e Raveraz accorsi subito nel luogo segnalatomi e catturai i due nemici, arrivando appena in tempo per impedire la violenza. A stento riuscii a sottrarli al linciaggio da parte dei civili, ma poco dopo li feci fucilare nel canalone dei Longarini; sarà questo l’unico ordine di esecuzione da me impartito.

Il mese di dicembre e quello di gennaio furono per noi i mesi più duri di tutto il rastrellamento, perchè ci trovammo costretti ad operare in condizioni terribilmente avverse, in un territorio ammantato di neve che spesso arrivava sino al ginocchio. A ricordo dei vecchi, pochi infatti erano stati gli inverni così rigidi e nevosi. Perciò, stremati dalla lotta, laceri ed affamati, esposti al freddo e alle intemperie, braccati come bestie da tutte le parti, costretti a continui spostamenti e ad un estenuante servizio di pattuglie e di sicurezza, provammo lo sconfortante senso che l’inverno più non dovesse finire e che la minaccia nemica più non avesse a cessare.

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Tuttavia, pur nello sconforto di una situazione tragica, mai crollò in noi la fede e la nostra volontà mai cedette contro il freddo, le intemperie, l’esasperante lunghezza del tempo, l’impraticabilità delle montagne e le notti perpetue passate di scolta. C’è ancora un eroismo comune : la costanza, la resistenza alla perenne minaccia dell’insidia nemica, ma in quel comune eroismo ogni anima ha la sua canzone, il suo grido di sfida e la sua riflessione profonda. Tutto sarà possibile per questi alpini figli dei monti, la cui giovinezza era trascorsa tra pascoli e boschi e che già conoscevano i lunghi inverni vissuti nella neve, fra le tormente, questi alpini patriarcali nella fede, nei costumi, negli interessi e che ora si levano quasi a simbolo dei partigiani più umili e più forti, più devoti nel sacrificio.

La mattina del 17 dicembre, portatomi in pattuglia verso il Bosco del Dego nei pressi di Barberino, riuscii a catturare sulla statale N. 45 due militari di nazionalità russa. Uno di essi rivestiva il grado di maresciallo della Wehrmacht ed entrambi erano armati di fucile automatico. Raveraz, che si trovava con me, caricò sulle spalle dei prigionieri le biciclette di cui erano provvisti e prima di farsi dietro di loro per scortarli a Lagobisione, schiaffeggiò senza apparente motivo il sottufficiale nemico.

A quella vista rimproverai aspramente il mio alpino per l’atto compiuto, facendogli presente che i prigionieri andavano assolutamente rispettati. Il russo capì allora i miei sentimenti e tutto confuso chiese di potermi stringere la mano. Non volli ricusare quella mano protesa e nella stretta avvertii che vi era qualche cosa che col tempo avrebbe dato i suoi frutti. Il prigioniero, infatti, cominciò a rivelarmi cose che altrimenti non avrebbe per nulla riferito. In perfetto italiano mi disse di chiamarsi Alisade Eli (Elio)) e di essere diretto a Mezzano Scotti con un ordine operativo per far muovere una colonna nazi-mongola verso Bobbio. Dopo qualche attimo di riflessione io gli dissi che lo avrei lasciato libero di compiere la sua missione, ma per far partire questa volta la colonna nemica verso Piacenza, in direzione opposta a quella stabilita dal Comando germanico, allo scopo di liberare, seppure temporaneamente, il centro di Mezzano Scotti dai soprusi che quella soldataglia vi andava compiendo. Nello stesso tempo avrei conseguito il risultato di allontanare dalle linee da noi tenute la minacciosa presenza di quelle truppe.

In un primo tempo avevo anzi pensato di far muovere la colonna nazi-mongola verso Bobbio per attaccarla di sorpresa al Passo di Barberino, ma scartai questa ipotesi per non porre Elio nell’imbarazzo di dover mandare al macello dei soldati che forse erano dei suoi compagni o quanto meno dei suoi compatrioti. Ritornammo quindi sui nostri passi, riconsegnammo al sottufficiale l’arma e la bicicletta e gli augurammo « in bocca al lupo ».

Per precauzione trattenemmo l’altro russo, ma questa misura si dimostrò inutile perchè il maresciallo, una volta condotta a termine la missione affidatagli, mantenne la parola data e fece ritorno da noi. Da quel giorno fu un nostro partigiano e lo chiamammo amichevolmente Elio. Intanto l’alpino Raveraz, già pentito del suo atto, era rimasto tutto solo in postazione di fianco alla statale; voleva riguadagnarsi la mia stima, perchè il rimbrotto l’aveva ferito più di una sferzata. Rimase sul posto fino a tarda sera, fino a tanto cioè che si fecero vivi due ufficiali tedeschi che in moto si recavano a Mezzano Scotti per rendersi conto del mancato arrivo a Bobbio della colonna nazi-mongola. Raveraz li ferì entrambi, senza tuttavia riuscire a catturarli. Il giorno dopo una nostra pattuglia sempre al Bosco del Dego riusciva a catturare un soldato russo e un sergente tedesco con le rispettive armi e cavalcature.

Il 19 dicembre, vestiti da militari tedeschi, io e Piovesan ci portavamo sulla strada del Penice all’altezza di Ravanera e passeggiando tranquilli fra le colonne tedesco-mongole che vi transitavano ne osservavamo i movimenti. A sera fummo raggiunti dai nostri partigiani Massimo e Gianni e dai nostri russi Elio e Camillo. Considerata ormai finita la missione decidemmo di far ritorno a Lagobisione. Mentre risalivamo la mulattiera di Squera vedemmo sbucare improvviso dall’alto un pattuglione di oltre 50 bersaglieri, i quali scendevano verso Bobbio per far ala ad una colonna tedesca che transitava sulla vicina rotabile del Penice. L’incontro avveniva a così breve distanza da far subito scartare l’idea di darsi alla fuga, come il numero dei nemici, il loro armamento e soprattutto la loro posizione favorevole ben consigliava. Perciò con la massima decisione, giocando il tutto per tutto, imperterriti continuammo la marcia per portarci sotto agli avversari.

A qualche passo di distanza questi c’intimarono il « chi va là », facendo subito scattare la sicura delle proprie armi. Il bravo Elio, che era il solo fra di noi che conosceva il tedesco, rispose allora in quella lingua, avvalorando così l’opinione che già i bersaglieri si erano fatti di trovarsi al cospetto di militi nazisti. Il partigiano Gianni, che si trovava in borghese avvolto in un nero ed ampio mantello, venne invece scambiato probabilmente per un contadino che ci facesse da guida. Con le armi spianate e ormai pronte all’uso, ci incrociammo coi nemici, mentre Gianni a mezza voce mi sussurrava in dialetto bobbiese; « Dobbiamo farne un fascio? ». Gli risposi subito col pestargli un piede mentre la mia mano sinistra abbassava quell’arma che già minacciosa gli spuntava di sotto al mantello. Superata la colonna nemica si poteva pensare di attaccarla, perchè eravamo noi a trovarci ora in posizione più favorevole, ma il pensiero che la sorte ci aveva poco prima assistito ebbe il sopravvento, per quanto Gianni continuasse a brontolare contrariato.

Sarebbe stato per un’altra volta. Il 20 dicembre Gino Cerri rientrava dal settore di Ozzola col suo distaccamento al completo, dopo aver brillantemente ultimato la sua missione e ricuperato del materiale importante. Il 23 dicembre una nostra pattuglia, condotta da Raveraz, catturava a Barberino cinque soldati russi ed un sottufficiale tedesco con il relativo armamento. In questo periodo di tempo anche Gino Cerri, Mix e gli uomini della squadra pionieri si recarono più volte alle porte di Bobbio per raccogliere preziose informazioni e distribuire volantini di propaganda per i militari russi.

Subito dopo Natale il distaccamento di Barba 2 fece ritorno a Monteventano, con l’incarico di svolgere importanti missioni in quel settore, e con esso partì pure Barba 1°. Il 30 dicembre una forte puntata di truppe tedesche e di bersaglieri repubblicani circondò il Castello di Monteventano e, dopo breve combattimento, riuscì a catturare sette dei nostri alpini e ad uccidere « Marcello », uno dei partigiani di Nico.

Barba 1° tentava allora di liberarli attaccando con solo cinque dei suoi uomini la colonna nemica in località Guada, ma il generoso suo tentativo rimaneva infruttuoso data la grande forza dell’avversario. I sette alpini caduti prigionieri erano: Fantoni, Goria, Piloni, Andreoni, Pastori, Lippi e il sergente Piovesan. Particolarmente degno di nota fu il comportamento di quest’ultimo che appena catturato ebbe il coraggio di sputare in faccia all’ufficiale dei bersaglieri che aveva osato chiamarlo « ribelle ».

Poiché si trattava di ex alpini della « Monterosa » essi furono consegnati al Comando di questa divisione e trasferiti nel carcere di Chiavari, dove trovarono i loro compagni Sbarbaro e Fruschelli e dove resteranno sino al giorno della Liberazione. Nonostante lo scacco subito e seguito da successive puntate nemiche, i due Barba rimanevano imperterriti coi loro uomini a Monteventano, dove più tardi furono raggiunti dallo stesso Gino Cerri.

Il 31 dicembre i bersaglieri del presidio di Bobbio, comandati dal ten. Bija e guidati dall’alpino che ci aveva traditi, compivano una puntata nella valle di Mezzano Scotti per impadronirsi di un nostro deposito di armi occultato ad Altarelli. Proprio lungo la strada che conduce al paese riuscivano a sorprendere e a catturare il comandante della V brigata, insieme con un suo partigiano. Siccome però il ten. Pippo da qualche giorno si era prudentemente tagliata la folta barba e entrambi erano disarmati e vestivano abiti borghesi, non venivano riconosciuti dai nemici. Scambiati quindi per contadini, furono condotti ad Altarelli sul luogo in cui le armi erano state sotterrate e che vigliaccamente era stato svelato dall’alpino; veniva data loro una zappa con l’ordine di porsi al lavoro. I civili del posto capirono la cosa e preoccupati della loro sorte pensavano subito di darsi da fare per liberarli. Invitavano infatti i bersaglieri nelle loro case e mentre questi venivano fatti sedere, circondati da mille premure, i due sventurati, che erano rimasti soli di fuori e quindi non più sorvegliati, potevano darsi alla fuga e salvarsi.

Nel corso della notte di Capodanno, nella stessa vallata di Mezzano Scotti ebbe luogo un massiccio rastrellamento da parte di truppe nazi- mongole, che, partendo da Cicogni, dagli Schiavi, da Gobbi e da Passo, puntavano con manovra concentrica su Chiappelli, per catturare il nostro comando di brigata. Grazie però alla solerte vigilanza delle nostre pattuglie di sicurezza, che contrattaccando, davano l’allarme, la puntata nemica aveva esito negativo.

Nella mattinata del giorno dopo il nemico ritornava purtroppo nella stessa zona dove si verificavano due forti puntate, l’una da Longarini e l’altra da Poggio Area. Veniva catturato l’alpino Maselli e ferito ad entrambe le gambe l’alpino Vezzoli, mentre gli alpini Busi Eligio e Zerbini Dino cadevano nel corso del combattimento. Eroico fu il loro comportamento di fronte alle preponderanti forze avversarie. Esaurite le poche munizioni del loro moschetto e lanciate le ultime bombe a mano, con le braccia alzate corsero incontro ai nemici più vicini, fingendo di volersi arrendere. Giunti però al loro cospetto di colpo le abbassarono in un ultimo quanto vano tentativo di lotta per strappare l’arma di mano al nemico. Caddero entrambi falciati da una raffica sparata a bruciapelo.

Per tutto il giorno e l’intera notte le forze avversarie restarono nella zona, rastrellando casa per casa e depredando. Perciò, soltanto all’indomani, con l’aiuto dell’alpino Ragaglia, mi fu possibile ricuperare le salme dei due miei eroici caduti. Nonostante queste forti puntate nemiche e il dolore per i compagni catturati o uccisi, gli alpini non stettero però inerti a subire l’iniziativa dell’avversario, ma oltre a contrattaccare e a frustrare i suoi tentativi, condussero anche azioni di disturbo sulla strada del Penice e sulla statale N. 45 da Barberino a S. Salvatore.

Nostre pattuglie mobilissime attaccarono infatti i convogli nemici e ne insidiarono il traffico. Si ebbero però anche azioni personali fatte da alpini isolati, fra i quali si distinse in modo particolare il bravo Raveraz. La zona da lui preferita era quella compresa tra Barberino e il Bosco del Dego, dove si può dire che egli stesse in agguato, per attendere il passaggio di reparti isolati che poi attaccava con audacia non comune. Al termine dell’azione non di rado faceva ritorno a Lagobisione con scarpe tolte ai nemici uccisi per poi passarle a quanti fra i suoi compagni ne fossero sprovvisti. Per tale ragione fra di noi si diceva che egli avesse al Passo di Barberino il suo... « negozio di calzature ».

Col provvedimento di togliere l’iniziativa al nemico e di continuare la guerriglia riuscii a scongiurare guai peggiori, perchè i fatti dimostreranno appunto che non vi sarà più salvezza per quanti avranno deposto le armi e cercato rifugio nei casolari di campagna in attesa di tempi migliori. Braccati giorno e notte con puntate metodiche che setacceranno palmo a palmo il terreno, molti partigiani verranno infatti sorpresi, catturati e fucilati. La stagione non poteva essere più propizia per il nemico. La neve alta ed il freddo intenso impedivano l’imboscamento, costringendo i patrioti a cercar asilo nelle case, nelle stalle, nelle cascine; molte volte le impronte stampate nella neve furono disgraziatamente rivelatrici della presenza dei ricercati. Alla tattica dei rastrellamenti diurni l’avversario unì quella delle puntate notturne. Mentre i reparti impiegati di giorno facevano ritorno alle loro basi, altri più freschi e riposati partivano per la caccia sul far della sera e se il rastrellamento diurno era rimasto senza esito, tale non lo era il più delle volte, purtroppo, quello della notte.

Il fatto più grave accadde nella notte di Capodanno ad Aie di Busseto, in quel di Pecorara; esso costò la vita a ben nove partigiani della II brigata. Furono infatti sorpresi nel sonno all’interno di una stalla e subito fucilati. Troppi incidenti di questo genere si erano verificati per non indurre a prendere seri provvedimenti di sicurezza, oltre a quello di continuare la lotta.

Fra tutti il migliore si rivelò quello da me adottato, che concedeva un turno di riposo durante il giorno, ma ordinava la veglia per tutti durante la notte. Il 6 gennaio, data la continua pressione nemica, il comando di brigata veniva trasferito a Cerpiano. Nello stesso giorno avveniva una puntata di bersaglieri a Zanacchi, alle falde del Penice; il nostro alpino Culatti cadeva prigioniero. Il giorno il gennaio i bersaglieri, unitamente a soldati tedeschi, compivano una forte puntata su Lagobisione, ma con esito negativo, se si esclude la solita razzia di polli e di bestiame, a tutto danno dei poveri contadini.. Nella notte dello stesso giorno altri reparti tedeschi effettuavano un rastrellamento nella zona di Erbagrassa. Sul far del mattino, mentre già facevano ritorno alle basi di partenza, riuscivano ad avvistare e a circondare una esigua pattuglia di nostri partigiani.

Gli alpini Lasi e Bovio, dopo aver resistito per qualche tempo al fuoco avversario, cadevano purtroppo prigionieri e venivano tradotti dapprima a Bobbio e poi al carcere di Chiavari.

Incessante continuava frattanto la nostra attività di pattuglie e di disturbo lungo la rotabile Bobbio-Piacenza e quella Bobbio-Penice. La VII brigata già da tempo era ormai rimasta sola a condurre la guerriglia, poiché in tutta la val Trebbia non vi era più alcuna traccia di reparti organizzati ed efficienti, ma vi erano solo gruppi sparuti di sbandati, rintanati qua e là sulle quote più alte e più arretrate. Gli stessi garibaldini della divisione « Cichero » erano stati costretti a riparare sui monti del Genovesato, lasciando sbloccata tutta quanta la statale N. 45. I centri di fondovalle erano in mano del nemico, che vi teneva presidi di truppa, mentre massicce sue colonne percorrevano la strada in un incessante va e vieni.

Sapevamo che il comandante Canzi e il comandante Guerci erano a Peli, ma entrambi ammalati; alcuni partigiani li assistevano, ma erano troppo pochi per condurre azioni. Si limitavano perciò a servizi di guardia e stavano più che altro sulla difensiva. L’unico reparto ancora organizzato e consistente, che in quei tristi giorni di gennaio ebbi ad incontrare, fu quello dei cecoslovacchi dell’Americano. Era costituito da ex soldati della Wehrmacht che avevano disertato ed erano comandati da un capitano della stessa nazionalità. Tale reparto si trovava accantonato a Dezza, dirimpetto al versante ovest del Bosco del Comune, dove stava esclusivamente sulla difensiva e si guardava bene dal prendere l’iniziativa di condurre attacchi. Restavano infine i garibaldini del Brallo, ma su di essi non si poteva contare perchè erano quanto mai impegnati nella loro zona.

Perciò, senza timore di smentite possiamo affermare che in tutta quanta la val Trebbia la VII brigata era la sola formazione partigiana ancora schierata di fronte al nemico e l’unica ancora attiva nel continuare la lotta, che, purtroppo, conduceva in ben tristi condizioni. Contro un nemico strapotente, organizzatissimo, equipaggiato, preparato ai rastrellamenti ed implacabile stavano degli uomini ormai stremati dal freddo, dalle fatiche, dalla fame, con gli abiti a brandelli e senza scarpe, con le munizioni paurosamente ridotte. Oltre a tutto questo c’era il tormento dei parassiti che producevano dolorose lacerazioni nella pelle; molti soffrivano di gravi disturbi provocati da bubboni bluastri, sintomi di infezione e di carenza di alimento.

Superiore ad ogni encomio fu quindi l’opera del cap. med. De Luca che si trovò costretto ad esplicare la sua mansione in condizioni terribilmente avverse per mancanza di medicinali e di attrezzatura ospedaliera, come pure valido fu l’aiuto delle già accennate due nostre crocerossine, Alice Ricci e Carla Lentoni, le quali mai vollero abbandonare i nostri ammalati, nemmeno nei momenti più brutti, e li assistettero con cura quasi materna.

Tuttavia, pur nello sconforto derivante da una situazione così critica e che poteva apparire senza speranza, il morale non si abbassava e ancora risuonavano i canti nostalgici degli alpini e le loro rumorose risate. Nella notte del 15 gennaio l’alpino Ambrosio, al quale per meriti speciali avevo nel frattempo affidato il comando di un nostro distaccamento, conduceva i suoi uomini all’attacco del presidio nazi-mongolo di Vaccarezza. Con azione di sorpresa gli alpini riuscivano a circondare il caposaldo nemico e ad aver poi ragione della furiosa reazione avversaria. Fu catturato l'intero presidio costituito da 22 soldati di nazionalità russa, furono uccisi due sottufficiali tedeschi e fu raccolto un buon bottino di bombe a mano, di munizioni e di armi; fra queste quattro fucili mitragliatori M. G. 42.

Solerte e fruttuosa si dimostrava nel frattempo anche la nostra propaganda, fatta a mezzo di volantini che io stesso riuscivo a recapitare in Bobbio, perchè circa 100 russi disertavano dai reparti tedeschi e si univano a noi con tutto l’armamento. Questi militari, unitamente a quelli catturati a Vaccarezza, venivano subito dati in forza al distaccamento del comandante Ambrosio, l’unico fra noi tutti che conoscesse la loro lingua essendo già stato combattente sul fronte russo; furono accantonati nella zona di Boschini-Cadelmonte. Si trattò però di un cattivo acquisto, perchè di nottetempo buona parte di essi disertò con le armi per passare ai garibaldini del Brallo.

Il 20 gennaio l’alpino Pugliese, con Elio e un altro russo rimasto con noi, attaccava nella zona di Ceci una colonna di 27 tedeschi che marciavano verso il paese e dopo violento combattimento non solo riusciva ad arrestarli, ma a costringerli alla ritirata. In tale azione furono uccisi un capitano, un maresciallo e 6 militari nemici, mentre altri quattro venivano catturati. Purtroppo dovevano morire anche due giovani civili, l’uno di Bobbio, l’altro di S. Maria. Si tratta di Bellocchio Giuseppe e di Monfasani Armando, che erano stati poco prima prelevati dai tedeschi in una baita sulle falde del Penice e costretti a far loro da guida verso Ceci. Quando si videro attaccati dai miei uomini, credendo di essere stati traditi e condotti in una imboscata,i nemici, prima ancora di disporsi al combattimento, trucidavano i due giovani con raffiche sparate alla schiena.

Proprio in questo periodo di fine gennaio si ebbe la cattura del nostro « picciotto » Mix. Il fatto accadde mentre egli in pieno giorno stava percorrendo la statale N. 45 per recarsi a Bobbio a distribuire volantini di propaganda, di cui aveva zeppe le tasche. Il suo aspetto di ragazzetto unito ad un certo candore del volto già numerose volte gli aveva permesso di compiere simili imprese, senza suscitare sospetti nel nemico. Perciò procedeva fiducioso, non senza una certa spavalderia. A breve distanza dalla città venne raggiunto alle spalle da un autocarro carico di soldati tedeschi. Mix li accompagnò con lo sguardo, pensando che anche questa volta gli sarebbe andata liscia. Invece l’automezzo dopo averlo superato si arrestò di colpo. Il « picciotto » fece appena in tempo a gettare al di là della siepe il pericoloso materiale che portava indosso, quando si trovò di fronte le armi puntate. Costretto a salire sull’autocarro subito capì chi poteva averlo riconosciuto e segnalato ai tedeschi. A bordo infatti vi erano due militi fascisti bobbiesi, ai quali non parve vero poter catturare quello che essi stessi ebbero a definire « il braccio destro di Italo », quando il povero Mix, portato all’albergo Barone, fu consegnato all’ufficiale comandante il presidio dei bersaglieri della città.

Il nostro « picciotto » venne subito a lungo interrogato nella vana speranza di potergli strappare qualche rivelazione, ma si comportò bene anche di fronte alle minacce e quando a sera i suoi aguzzini gli dissero che l’avrebbero rinchiuso in una stanza, dove avrebbe potuto meglio meditare, egli con fierezza rispose : « In mezzo a traditori e a lestofanti, quali siete voi della Repubblica, io non ci dormo » per dimostrare appunto quanto ribrezzo gli facesse quella vicinanza. Allora fu battuto a sangue. Restò prigioniero ancora per qualche giorno e poi fu posto in libertà in considerazione della sua giovane età, e della convinzione che il nemico si era fatto che egli sapesse ben poco dei partigiani e soprattutto per la preziosa intercessione del vicario mons. Balzarini, che tanto a cuore si era preso la liberazione dello sventurato patriota.

Nonostante qualche dura lezione, molte spie si posero al soldo del nemico, provocando varie puntate avversarie a colpo sicuro. Oltre a mia madre e a mia sorella, anch’io fui oggetto di affannose ricerche e una grossa taglia fu posta sul mio capo. Per questo e soprattutto per le continue e premurose insistenze di quella nostra coraggiosa informatrice che fu la madre del partigiano Massimo Longhi, io stesso fui costretto a nascondermi per qualche giorno insieme coi patrioti Tom, Massimo e Carlo, in casa di ospitali e generosi contadini.

Nell’ultima decade di gennaio la storia della VII brigata si fraziona più che altro nelle vicende dei singoli e nelle azioni individuali, il che rende difficile riferirla. Proprio in questo periodo di tempo i bersaglieri del ten. Ragazzo visti vani i tentativi per catturare mia madre e mia sorella, sfogarono la loro rabbia sulla nostra casa in Bobbio, saccheggiandola completamente e asportando ogni cosa. Nei miei confronti, neppure i tedeschi erano giunti a questo punto.

Proprio in questo periodo di inizio di febbraio mi giungeva gradita la notizia che il comandante Guerci andava riorganizzando i suoi partigiani a Peli e che anche quelli di Salami stavano riprendendosi e si facevano attivi. Infatti, con azione concordata con quelli della IV brigata, questi patrioti riuscivano a catturare due bersaglieri che da Bobbio si erano avventurati sino al Lagone di Peli, per ricuperare un autocarro rimastovi avariato fin dal tempo della battaglia del 29 novembre. Non molto tempo dopo gli stessi partigiani, calando da Telecçhio, attaccavano una camonietta nemica sulla statale N. 45, appena a sud di S. Salvatore e uccidevano un maggiore tedesco. Questa azione doveva più che altro servire per la cattura di un ufficiale superiore onde scambiarlo col dott. Landi, il quale nel frattempo era caduto in mano avversaria nell’alta val Nure.


LA RIPRESA PARTIGIANA NELLA VAL TREBBIA


Per quanto non si possa stabilire in proposito una data precisa, la riorganizzazione di tutte le forze partigiane della bassa e media val Trebbia e la loro nuova partecipazione alla lotta accanto all’indomita VII brigata, la quale, come si è detto, mai aveva abbandonato la guerriglia e per la quale il termine « ripresa » non ha significato, si può far risalire alla prima decade del febbraio 1945. Essa coincide con la riunione che in quel periodo Fausto tenne a Pecorara, con tutti i comandanti delle brigate dipendenti. Pur nello sconforto di una situazione tragica mai era venuta meno durante i lunghi mesi del rastrellamento la speranza di tempi migliori. Il ricordo dei compagni caduti, quello dei patimenti sofferti nel crudissimo inverno, le atrocità commesse dai nemici e la consapevolezza degli ideali per i quali si era combattuto, non disgiunta da un certo desiderio di rivincita, tutti questi motivi influirono sull’animo dei partigiani sbandati e valsero a far loro ritrovare la volontà di ritornare nei ranghi per riprendere la lotta.

Furono perciò dissotterrate e riprese le armi deposte, ristabiliti i collegamenti, rintracciati gli sbandati e ricostituiti i nuclei. Questi non erano ancora le brigate di prima del rastrellamento, ma erano già qualche cosa dopo tanto squallore. Erano il sintomo della ripresa, il ridestarsi dall’inerzia e dall’immobilità, la ribellione cosciente alla perenne minaccia nemica. E un nuovo giuramento prorompeva dai petti dei singoli, che vincevano così egoismo, fiacchezza e paura. Attorno a questi primi nuclei di più coraggiosi e di più decisi, andranno raccogliendosi col procedere della riorganizzazione e con l’intensificarsi delle azioni di guerra, anche i dubbiosi e i più prudenti, che affluendo nei reparti daranno loro la nuova consistenza numerica di brigata. A Pecorara trovai Fausto del tutto cambiato da quello che avevo visto per l’ultima volta a Perino. Ormai ristabilito nel fisico era tornato allegro, sicuro di se e desideroso più che mai di rivincita e di chiudere alfine la partita aperta col nemico. Rivolse un pensiero commosso a quanti erano caduti sotto il piombo avversario o erano stati troncati dagli stenti e dal freddo e si dimostrò particolarmente addolorato per la fucilazione del comandante Paolo. Questa era avvenuta da poco, il 7 febbraio, al Cimitero di Piacenza.

Tralascio di descriverla perchè già altri, e più degnamente, lo hanno fatto nei loro scritti, soprattutto quel bravo cappellano militare, don Giuseppe Bonomini, che ebbe ad assistere Paolo e ne raccolse le ultime parole. Mi limiterò soltanto a ripetere la frase che al ritorno dall’esecuzione pronunciò il maresciallo dell’ufficio politico del nemico : « E’ un peccato fucilare uomini di carattere come Paolo, che muore al grido di viva l’Italia », perchè essa sola basta a esaltare l’uomo oltre che il patriota e l’eroe. La perdita di Paolo fu grave per noi tutti che di essa mai più ci consoleremo.

Fu grave soprattutto per la sua brigata, che nel dolore perderà il suo caratteristico mordente, in virtù del quale primeggiava sulle altre. Nel convegno di Pecorara, Fausto ebbe parole di grande lode per la VII brigata, additandone il comportamento come raro esempio di dedizione al dovere, ed ascoltò con interesse le relazioni di tutti i comandanti. Quindi, dopo aver preso in esame la nuova situazione, diede a ciascuno di noi le disposizioni necessarie per affrontarla. Per la val Trebbia esse erano le seguenti : la parte alta della valle era stata ripresa dai garibaldini della divisione « Cichero » ; a Marsaglia dominavano i partigiani di Salami, la parte media e bassa, da Bobbio a Rivergaro, era invece ancora in possesso del nemico che la presidiava con forze cospicue. Contro queste si doveva ora operare e i patrioti non mancarono alla nuova caccia.

Nel frattempo, in Bobbio, al presidio dei bersaglieri si era alternato quello del battaglione « Nettuno » di S.S. italiane, comandato dal magg. Remo Boldrini, ma controllato da ufficiali tedeschi. Da parte della VII brigata venne perciò intensificato il servizio di pattuglia e si accrebbe il ritmo degli attacchi ai convogli avversari. La stessa città venne chiusa entro una morsa di ferro dalla quale era difficile poter uscire senza amare sorprese. Proprio in questo periodo di tempo, mentre ritornavo con una pattuglia di alpini da Ceci, riuscivo a sorprendere una macchina delle S.S., che dal Passo Penice scendeva a Bobbio.

Il fatto avvenne in località Campore, a 3 chilometri circa dalla città. L’automezzo sbucò improvviso da una curva mentre noi stavamo attraversando la strada. A bordo si trovavano due sacerdoti di Bobbio, il magg. Boldrini ed un milite che fungeva da autista. Ritornavano da un colloquio avuto al Penice col cap. Giovanni in merito ad uno scambio di prigionieri. Siccome la macchina era sprovvista del regolare contrassegno e noi eravamo all’oscuro di tutto, certo non potevamo pensare che si trattasse di parlamentari.

Perciò ordinai al mitragliere Pedralli di piazzare la sua arma e seguito da Barba 1° mi portai subito al centro della strada per intimare la resa. L’automezzo si arrestò di colpo e ne scesero emozionatissimi i due sacerdoti seguiti dal magg. Boldrini, che ostentava una calma un po’ troppo forzata. Alla vista dei due prelati feci abbassare le armi, andai incontro all’ufficiale nemico e mi presentai. Seppi in tal modo il motivo del viaggio al Penice, confermato d’altra parte anche dagli altri. Il maggiore mi disse di avermi subito riconosciuto, e con aria insolente si dolse del fatto che i partigiani tendessero simili imboscate proprio a lui, così incline ed abituato a « combattere a viso aperto ».

Con ciò voleva accusarci di viltà o quanto meno di mancanza di senso cavalleresco. L’avrà più tardi, a Monticello, il combattimento a viso aperto, quando, approfittando della nostra scarsità numerica ci verrà ad attaccare con forze dieci volte più grandi e subirà una memorabile sconfìtta. Lo feci perciò risalire in macchina e senza aggiungere parola gli accennai che lo lasciavo libero di proseguire. Il 10 febbraio inviai il maresciallo Mazzucco nella zona di Monteventano per recar ordini a quel nostro distaccamento. Insinuandosi fra le maglie dello schieramento tedesco egli riusciva a ritrovarsi con Gino Cerri e Barba 2° e imponeva loro di raggiungermi a Lagobisione.

Il 20 febbraio, da Mazzucca, inviavo a S. Maria una pattuglia di tre alpini, per richiedere munizioni ai nostri reparti che si trovavano colà distaccati. A Pegni però, nell’attraversamento della mulattiera che unisce Bobbio a Vaccarezza, essa veniva sorpresa da una colonna di 50 S.S. che stava scendendo verso la città. L’incontro avveniva a così breve distanza da rendersi inevitabile il combattimento. I nostri uomini, malgrado la superiorità schiacciante dell’avversario, non esitavano ad aprire il fuoco, causando al nemico un morto e tre feriti. Quindi, sempre sparando e benché l’alpino Bigoni fosse ferito al braccio, riuscivano a sganciarsi e a porsi in salvo.

Gli avversari, accecati dall’ira, si rivalevano sui civili, uccidendo un contadino nell’interno della sua casa e incendiando la cascina dell’avv. Della Cella. Anche i presidi nemici di Bobbio e di Vaccarezza intervennero nel combattimento col fuoco dei loro mortai, senza accorgersi di battere la loro stessa colonna, la quale per un vero miracolo non ebbe a subire altre perdite.

Due giorni dopo con l’alpino Raveraz mi recai in Bobbio per parlamentare col magg. Boldrini. L’incontro avvenne all’Albergo Barone, dove fummo accolti con ogni riguardo ed invitati a mensa. Presenti, oltre al maggiore comandante, vi fu un sacerdote con alcuni ufficiali delle S.S. e il col. Cerruti di Cassolo. La conversazione si aggirò sulla situazione militare della vai Trebbia; mi fu chiesta una tregua onde consentire l’evacuazione del battaglione « Nettuno » dalla città.

Promisi che non avrei attaccato, e che avrei permesso la ritirata da Bobbio soltanto se l’avversario avesse deposto le armi. Il maggiore Boldrini durante tutto il colloquio tenne un contegno evasivo e quasi staccato, lasciando di preferenza parlare un biondo ufficiale, che per quanto si esprimesse correttamente nella nostra lingua e vestisse la divisa delle S..S. italiane, lasciava chiaramente capire di essere un tedesco. Il maggiore comandante era tenuto in disparte da un ufficiale a lui inferiore di grado e ne subiva in tutto la soggezione.

Il 24 febbraio, nonostante la tregua pattuita, una compagnia di S.S. compiva una puntata offensiva contro le nostre linee di Lagobisione. Riusciva a portarsi in vetta al monte Pradegna, ma temendo una nostra manovra di aggiramento che già andava concretandosi, si affrettava a far ritorno alla base di partenza, senza tuttavia trascurare, per motivi di sicurezza, di trascinarsi seco alcuni ostaggi civili. Da informazioni che io stesso avevo raccolto in Bobbio, in una delle mie frequenti visite alla città, risultava che i reparti delle S.S. si preparassero all’evacuazione e che questa si sarebbe effettuata nel più assoluto riserbo, per poter forzare senza perdita il Passo di Barberino, da noi insidiato di continuo. Si trattava di far passare dapprima le armi pesanti, cioè le mitragliatrici e i mortai, per rendere più celere e più leggera la truppa che sarebbe seguita di poi.

Era, tuttavia, impossibile superare l’ostacolo di Barberino senza essere scorti dai partigiani. Il nemico cercò allora di giocare d’astuzia, un’astuzia che risulterà però fatale, oltre che vana e criminale, perchè pensò di servirsi proprio dell’autocorriera che nel frattempo aveva ripreso a far servizio tra Bobbio e Piacenza. I mortai e le mitragliatrici caricati su questo automezzo e la scorta mescolata ai viaggiatori civili non avrebbero certo attirato l’attenzione dei partigiani e fatto loro sospettare alcunché di anormale.

Fin troppo bene il Comando avversario sapeva che gli alpini mai avevano controllato le macchine del servizio pubblico per non essere invogliate a trar profitto da questa nostra negligenza. Il piano quindi sarebbe con tutta probabilità riuscito se proprio in quel giorno non mi fossi recato a Bobbio e non avessi visto di persona i mortai che il nemico andava ammassando in piazza S. Francesco, nell’attesa di poterli caricare.

In tutta fretta avvertii allora Barba 1°, che sapevo trovarsi a Lagobisione, affinchè accorresse coi suoi uomini al Passo di Barberino. In seguito però alle energiche proteste dei viaggiatori e dello stesso autista le armi pesanti furono lasciate a terra e il nemico si limitò a far salire un suo ufficiale con una squadra mitraglieri. Troppo tardi ormai perchè io potessi raggiungere i miei alpini e farli desistere dall’attacco.

Col suo carico eterogeneo di civili e di militari armati sino ai denti, l'autocorriera si mosse da Bobbio alla volta di Piacenza. Confidai allora nella buona sorte e più ancora nella sagacia del bravo Barba 1°. Appena l’automezzo ebbe ad imboccare il ponte, dove la statale N. 45 si biforca nella diramazione per Mezzano Scotti, questi col suo mitra spianato si portava verso il centro della strada e intimava la resa.

Mentre l’autista frenava e cercava scampo sotto la macchina, da bordo rintronarono le prime raffiche dei mitra nemici. Per un vero miracolo Barba 1° non ne fu investito, ma si trovò costretto a ripararsi dietro uno spuntone di roccia. Il mitragliere avversario, che nel frattempo era sceso ed aveva piazzato il suo mitragliatore sul parapetto del ponte, già stava prendendolo di mira, quando il nostro Piersanti entrava in azione col suo M. G. 42 e lo stroncava, facendolo accartocciare sull’arma.

Ora tutti gli alpini che si erano astenuti dal prender di mira la corriera, gridavano al nemico di arrendersi e di uscir fuori per accettare il combattimento, lontano dai civili. Invano! Da bordo le S.S. continuavano a sparare con tutte le armi attraverso i finestrini. Le loro raffiche sempre più nutrite coprivano le urla dei viaggiatori, che terrorizzati si erano abbassati fra i sedili mentre il nostro Barba 1° corse ancora il pericolo di venir colpito da quel fuoco rabbioso. Per salvare il comandante si rese perciò necessario un secondo intervento del mitragliere Piersanti. Proprio a questo punto una giovane donna commetteva però l’imprudenza di rizzarsi in piedi, gridando all’ufficiale nemico, che le stava vicino e che incitava i suoi uomini a sparare : « Voglio vederli in faccia questi ribelli... ». La colse in pieno una nostra raffica, che la falciò insieme ad un sottufficiale e ad un milite, mentre lo stesso tenente nemico cadeva ferito unitamente ad un’altra viaggiatrice.

Dall’automezzo sforacchiato e grondante sangue uscirono allora i civili per segnalare che le S.S. finalmente si arrendevano., Il partigiano Girardini, che fu uno dei primi ad accorrere, per poco non ebbe a svenire, riconoscendo in una delle viaggiatrici la propria sorella. Il povero autista fu invece l’ultimo a stanarsi dal suo sicuro riparo e, per quanto emozionato ancora egli fosse, obbedì a Barba 1° che gli ordinava di affrettarsi a mettersi al volante, per ricondurre a Bobbio quel triste carico di gente terrorizzata, di morti e di feriti. Questi ultimi infatti avrebbero potuto trovare presso l’Ospedale civile della città cure adatte al loro caso e comunque migliori di quelle che avrebbero potuto offrire i partigiani sui monti. I 6 militi superstiti verranno invece da noi trattenuti insieme col bottino delle armi, che ammontava ad un fucile mitragliatore Breda, quattro mitra, tre fucili, parecchie pistole, oltre a bombe a mano e a munizioni; i prigionieri furono subito consegnati al Comando divisionale.

Pure trattenuto sarà l’ufficiale ferito, ten. Bovenzi, che verrà trasportato a Longarini e curato dal cap. med. De Luca. Qui spontaneamente ammise, con suo freddo cinismo, di essere lui solo il responsabile del gran fatto di sangue e mi rilasciò una dichiarazione scritta, in cui affermava che le S.S. spararono per primi e per suo ordine, senza curarsi di essere in presenza di un cospicuo numero di viaggiatori civili.

Non molto tempo dopo fu restituito ai suoi reparti in uno scambiò di prigionieri, avvenuto a Mezzano Scotti, che servì a salvare due partigiani della IV brigata caduti in mano al nemico. Nella notte tra il 26 e il 27 febbraio, alla porta nord di Bobbio, una nostra pattuglia incrociava due elementi armati che stavano per farvi ingresso. Si trattava di ufficiali dell’aviazione alleata, il cui apparecchio era precipitato poco prima nel canalone di Poggio di Arca. Salvatisi col paracadute e ignari della situazione militare della val Trebbia, subito si erano incamminati verso la città nella speranza di potervi trovare..., asilo e assistenza. Andavano invece incontro al nemico. Al nostro Comando furono accolti con tutti i riguardi, rincuorati e rifocillati; si dissero assai meravigliati delle precarie condizioni in cui vivevano i partigiani italiani, del genere di guerra che stavano combattendo e si lamentarono dello stato delle nostre mulattiere. Ciò suscitò l’ironia degli alpini che li definirono scherzosamente dei « figli di papà dai piedi piatti ».

Verranno in un tempo successivo scortati al Comando divisionale e poi al Comando unico, in val Nure, ma sempre resterà con noi il loro ricordo di gente fiacca, abituata a far la guerra in mezzo a tutte le comodità, senza rinunce e senza sacrificio.

Nel corso della stessa notte Barba 1° ed Ambrosio attaccavano coi loro uomini il presidio delle S.S. a Vaccarezza e procuravano un ferito al nemico. Per tutto il resto del mese venivano intensificati gli attacchi, diurni e notturni, contro il presidio di Bobbio e contro il suo traffico lungo la strada del Penice e di Piacenza. Ormai il cerchio partigiano andava sempre più stringendosi attorno alle S.S., senza più lasciare alcuna tregua al nemico, smorzandone l’ardore combattivo, facendolo vivere in una continua atmosfera di tensione e di incubo. I nemici faranno ancora qualche puntata offensiva per tenerci lontano, ma ciò denoterà più che altro il loro terrore e la loro fiacchezza.

Le mie stesse frequenti visite in città li faranno stare in allarme continuo nel timore dell’attacco decisivo. Entravo in Bobbio in qualsiasi ora del giorno e anche talvolta vi pernottavo, ospitato dalla coraggiosa madre del partigiano Mix. Le mie incursioni non erano senza frutto, perchè oltre ad assumere informazioni, riuscivo a sottrarre armi e munizioni, e a catturare qualche prigioniero, come quel milite prelevato dinanzi al portone del Castello Malaspina, che era diventato la roccaforte del nemico. Tutto questo, unito all’ansia di un domani sempre più incerte e alla constatazione di non poter più far fronte ad una situazione sempre più critica, infiacchì l’avversario e gli fece prendere la decisione di evacuare la città.


LA TERZA OCCUPAZIONE DI BOBBIO


Lo sgombero della città avvenne nella notte del 3 marzo, lungo la strada per Piacenza, con la protezione di pattuglie che facevano ala ai fianchi della colonna. Il nemico aveva preso tutte le misure e precauzioni per evitare sorprese da parte nostra. Nonostante tutto non l’avrebbe fatta franca se noi non avessimo avuto le munizioni contate che c’impedivano di attaccarlo, perchè anche quella notte la VII brigata era in allarme e vigilava, schierata dalla parte nord della città al Passo di Barberino.

La colonna ci sfilò dinanzi in ordine di combattimento, procedendo con cautela e coi fari spenti. Ai reparti di avanguardia e al grosso seguivano gli autocarri carichi del materiale e per ultima l’infermeria da campo con le autoambulanze; diedi ordine di non far fuoco. Mentre gli alpini frementi sorvegliavano l’esodo con le armi puntate, alle 5 del mattino con una pattuglia calavo in città dalla parte del ponte Dorbida, mentre i civili che ancora non si erano accorti del nuovo cambio di guardia ci guardavano trasecolati.

L’accoglienza fu grandiosa, massimamente quella che ci serbò all'Albergo Barone la famiglia del nostro partigiano Massimo Longhi. L’entusiasmo della popolazione fu parimenti grande e sincero. Con noi aveva sofferto e saputo resistere, per noi tanto aveva trepidato nel corso di quei lunghi mesi, senza mai perdere la sua fierezza al cospetto del nemico, senza mai venire a compromessi con esso, senza mai abbassare il capo dinanzi alla volontà del più forte, e quel che più conta, senza mai perdere la fede nel nostro ideale e la speranza che i partigiani sarebbero ritornati.

Dopo l’evacuazione da Bobbio il battaglione delle S.S. del magg. Boldrini ebbe ad attestarsi a Perino e nei suoi dintorni, con reparti avanzati fino a Cassolo verso il Passo di Barberino. Il 5 marzo il distaccamento di Barba 2°, che era stato nel frattempo richiamato da Monteventano, veniva dislocato nella zona di Centomerli, mentre quello di Barba 1° in località Formaggiara, entrambi col compito di bloccare al Passo di Barberino un eventuale ritorno del nemico. A Vaccarezza e a Lagobisione, in posizione più arretrata, prendeva invece posizione il distaccamento di Ambrosio, con compito di rincalzo.

Sulla sponda destra del fiume Trebbia andava intanto riorganizzandosi la IV brigata, che avrebbe parato sorprese nemiche da quel lato verso la città di Bobbio, dove nel frattempo avevano fatto ritorno i soliti uffici stampa, giellista l’uno e garibaldino l’altro, con una gran quantità di notizie in arretrato. Io personalmente risiedevo in Bobbio, dove mi trovavo costretto dalla necessità di occuparmi dell’amministrazione civile, per le stesse ragioni già dette a proposito della nostra precedente occupazione.

Tuttavia, non trascuravo i miei impegni di carattere militare ed il mio turno di guardia, che avevo voluto fosse quello notturno. Il battaglione delle S.S. di stanza a Perino, si manifestò subito particolarmente attivo nel compiere frequenti e forti puntate offensive verso i monti per tener lontani i partigiani dal fondovalle, anzi con azione di sorpresa riusciva ad occupare la quota del monte Parcellara, sulla riva sinistra del Trebbia, sottraendola ai patrioti della III brigata, e a piazzarvi le sue armi pesanti.

Fu quello un grave scacco per noi, perchè lo stesso Comando divisionale, che aveva sede all’Alzanese, si trovò minacciato da vicino e da posizione dominante. Monte Parcellara è infatti una quota rocciosa, ricca di anfratti e di caverne, che si erge isolata e superba tra radi boschi e campi coltivati: una vera fortezza naturale che offre eccellenti possibilità di appiglio e di difesa. Da essa si domina la val Trebbia e il centro di Perino ad est, la vallata di Embrici e di Freddezza a sud, Scarniago e l’Alzanese ad ovest, la vallata di Bobbiano a nord.

Si cercherà di eliminare la minaccia col tentare di occupare la quota con azione notturna, cui presero parte patrioti di varie brigate. Quest’attacco fu sferrato nella notte fra il 6 e il 7 del mese di marzo, ma non ebbe successo e due partigiani della I brigata caddero in combattimento.

Nei giorni successivi saranno invece le S.S. ad attaccare, grazie all’appoggio delle armi pesanti piazzate sul monte Parcellara, e riusciranno a raggiungere l’Alzanese, dove faranno razzia nella casa del buon Remigio e nel magazzino della nostra divisione. Dovranno però accontentarsi di un magro bottino perchè il comandante Fausto, prevedendo l’azione nemica, aveva provveduto a far trasferire altrove la maggior parte del materiale.

In tale azione, condotta di nottetempo, verrà catturato il ten. Sandro, intendente della divisione « G. L. », che però riuscirà a fuggire e a salvarsi, eludendo la sorveglianza degli avversari. In seguito a questo attacco, per ordine di Fausto, anche la VII brigata si schierava a difesa del Comando divisionale. Precisamente occupava il lato destro dello schieramento partigiano, prendendo posizione nella zona di Bocchè-Fosseri col distaccamento di Barba 2°.

Qualche giorno dopo il comandante Fausto decideva un attacco notturno contro il presidio nemico di Perino. Ad esclusione di quella di Romagnese, vi presero parte tutte le brigate della divisione « G. L. » e ad ogni formazione fu assegnato un proprio settore operativo. Specificatamente la VII doveva investire il paese da sud, dal lato della statale N. 45. L’azione però sfumerà a causa della vigilanza dell’avversario, che probabilmente avvertito da qualche spia si era affrettato ad uscire dall’abitato per prendere posizione sulle quote sovrastanti. Se i partigiani fossero entrati in Perino da assedianti sarebbero diventati gli assediati. Perciò ad un certo punto i razzi lanciati della pistola Verry di chi per primo si era accorto dell’imbo scata davano il segnale di ritirata a tutte le forze partigiane che si trovavano in campo.

Il 21 marzo una compagnia di S.S. raggiungeva di notte l’abitato di Mezzano Scotti e, dopo averlo circondato, vi faceva ingresso, abbandonandosi ad atti di violenza contro la popolazione civile. Una nostra pattuglia di sicurezza comandata da Barba 2° attaccava il nemico, causandogli tre feriti e costringendolo a ripiegare. Due giorni dopo si verificava un’altra puntata notturna, condotta con gli effettivi di una compagnia di S.S. che avevano il compito di risalire il rio Fontana, nei pressi di Barberino, per raggiungere ad ogni costo Vaccarezza.

Da qui avrebbero fatto una conversione per aggirare alle spalle la VII brigata. L’unico guado di cui poteva servirsi il nemico per passare sulla riva sinistra del Trebbia era allora costituito da una passerella, appena a valle del ponte distrutto di Barberino. I partigiani non avevano provveduto a farla saltare solo per il fatto che essa doveva servire per il traffico dei civili, ma vi montavano costantemente di guardia.

I vicini reparti dislocati a Casa Bianca, Centomerli e Moione sarebbero subito intervenuti in caso di allarme. Quella notte facevo io il turno di guardia, in compagnia di Tom, Alpegiani e Pridella, sostando sulla strada di Mezzano Scotti, nel punto in cui questa sovrasta l’orrido di Barberino.

Le S.S. partite da Perino e da Cassolo, col favore delle tenebre erano riuscite a raggiungere non viste la sponda apposta. Per non far rumore avevano provveduto a fasciarsi gli scarponi con degli stracci ed in silenzio ora stavano ponendo il piede sulla passerella. A questo punto noi le scorgemmo, a non più di 100 passi. Sparai allora i rituali tre colpi d’allarme, ai quali risposero altrettanti dal costante rocciose sovrastante. Ciò mi convinse che anche le altre sentinelle vegliavano e che avevano trasmesso l’allarme ai compagni.

Con gli uomini della mia pattuglia presi poi la via più diretta, attraverso la roccia, per raggiungere i reparti degli alpini. Li feci subito arretrare, reputando impossibile un attacco in tanta oscurità. In quota vi era pure nebbia fittissima. Avrei attaccato all’alba quando la visibilità l’avesse consentito. Le S.S. raggiunsero sempre caute la zona di Casa Bianca, di Centomerli e di Moione, ma non ardirono appressarsi alle case perchè i nostri spari d’allarme le avevano avvertite che i partigiani stavano all’erta.

Anzi il lancio di qualche bomba a mano effettuato da un nostro alpino che si era venuto a trovare in mezzo a loro aveva provocato un certo scompiglio nelle loro file. Anch’essi, i militi, non sparavano per il timore di colpirsi e, per non perdersi di vista, procedevano a ranghi serrati. Quando ormai albeggiava, dopo aver superato l’abitato di Moione, facevano una conversione improvvisa, affrettando il passo verso il fondovalle. A questo punto agli alpini frementi davo l’ordine di avanzata e di corsa li trascinai all’assalto di una quota sulla quale le S.S. sembrava volessero ancora indugiare, per coprire la ritirata degli altri. Tanto fu però l’impeto nostro che al solo vederci si precipitarono in fuga verso Mezzano Scotti.

Qui verranno raggiunte dal fuoco dei nostri mitragliatori, che causerà quattro morti e dieci feriti, e li costringerà ad un definitivo e disordinato guado del Trebbia. Il giorno 25 marzo una nostra pattuglia comandata da Leggi 1° e composta da 6 elementi, fra i quali Leggi Pietro fratello del comandante, si portava sulla rotabile Rivergaro-Piacenza, con il compito di molestare il traffico nemico. Notato in lontananza, verso Rivalta, un automezzo avversario in marcia, per intercettarlo i patrioti non indugiarono a guadare il Trebbia allo scoperto.

L’automezzo era un grosso autocarro armato di una mitragliera da 20 mm. e di varie mitragliatrici, con a bordo una quarantina di militi S.S. italiani, agli ordini di un maresciallo tedesco. Giunti sulla riva opposta i partigiani si trovarono improvvisamente dinanzi ad una pattuglia nemica pure di sei uomini, che nel frattempo si era staccata dall’autocarro. All’intimazione di resa data da Leggi 1° tutti i militi obbedirono, tranne il maresciallo tedesco che fingendo di arrendersi e di buttare a terra il suo mitra di scatto lo rialzò sparando. Leggi Pietro cadde colpito a morte. La reazione degli alpini fu allora immediata e furiosa, perchè l’intera pattuglia nemica venne annientata.

A questo punto intervennero tutti i militi S.S. rimasti sull’autocarro, che investirono i nostri uomini con un vero uragano di fuoco, ma Leggi 1° e Balilla, dimostrando audacia non comune li attaccarono a distanza ravvicinata a colpi di bombe a mano, procurando nuovi morti e feriti, e li costrinsero alla fuga. All’autista fu sentito gridare: « Attacca la marcia, che altrimenti ci fanno fuori tutti quanti ».

Nel frattempo il battaglione di S.S. di stanza a Perino veniva fatto oggetto di reiterati attacchi da parte di partigiani della nostra divisione. Fra tutti va citato quello sferrato dal comandante Muro, che investì l’abitato di Perino dal lato nord-est. I suoi uomini, appostati a valle di Pillori, batterono per più ore, a colpi di mitraglia, le posizioni nemiche, sforacchiando le facciate delle case e causando perdite imprecisate.

Il giorno 3 aprile il suddetto battaglione, non potendo più resistere all'accresciuta e continua pressione partigiana, abbandonava Perino per ripiegare su Rivergaro, dove già si trovava la brigata nera « Turchetti », con punte avanzate a monte, sino a Montechiaro, a Casino Agnelli e a Quadrelli.

Due giorni dopo il distaccamento di Barba 2°, per non perdere il contatto col nemico, veniva trasferito dalla zona del Passo di Barberino a Monticello, dove prendeva posizione nel Castello. Nessuno sapeva che sarebbe andato incontro ad un’azione gloriosa. Il giorno 6 aprile due squadre di questo distaccamento si portavano sulla statale N. 45, nel tratto tra Rivergaro e Niviano, con compito di disturbo. Qui attaccavano una colonna tedesca in marcia, incendiavano una motocicletta, mettevano fuori uso un autocarro e causavano al nemico 3 morti e diversi feriti.

Questa nostra attività di disturbo del traffico avversario sulla statale N. 45, a valle di Rivergaro, si protrasse sino all’8 aprile. Anzi, in quello stesso giorno, una nostra squadra riusciva a penetrare nella polveriera di Gossolengo e ad asportare un ricco bottino di materiale bellico, comprendente 1728 bombe anticarro. Frattanto le S.S. del magg. Boldrini, allarmate per i continui attacchi sferrati dai nostri alpini di Monticello e dai partigiani della III brigata « Paolo », con azione notturna di sorpresa riuscivano ad occupare la quota del monte Pillerone, sottraendola ai patrioti di quest’ultima formazione, e a piazzarvi le loro armi pesanti.

Monte Pillerone, che è la più elevata altura della bassa vai Trebbia, si erge sulla riva sinistra del fiume, proprio all’imbocco della valle. La sua vetta tondeggiante è brulla, mentre i suoi fianchi scendono ripidi e selvosi verso il fondovalle. Dagli altri iati digradano invece in una serie di collinette in parte coltivate e in parte lasciate boschive. Dalla sua cima si può spaziare tutt’attorno per largo raggio: a nord si scorge infatti la pianura, ad est il paese di Rivergaro, il corso del Trebbia e la statale N. 45, a sud e ad ovest le posizioni allora tenute dai partigiani.

Fra queste la più avanzata, a tiro di mortaio, era quella del Castello di Monticello, presidata dagli alpini della VII brigata. Si trattava quindi di una posizione chiave di primaria importanza strategica, perchè esserne padroni significava per il nemico poter salvaguardare le sue posizioni nel fondovalle ed avere nello stesso tempo una base di partenza e di appoggio per un suo eventuale attacco in quota alle linee partigiane.

Per queste necessità le S.S, l’avevano quindi occupata e vi avevano subito piazzato i loro mortai. Malgrado la vicinanza delle preponderanti forse nemiche e l’invito dei comandante Fausto a sgomberare la zona, gli alpini di Barba 2° si rifiutarono di abbandonare il settore e si asserragliarono entro il castello. Questo rifiuto di Barba 2° fu l’origine della battaglia di Monticello, cioè dell’episodio bellico più importante di tutta la lotta partigiana nella val Trebbia.

Il 15 aprile il castello di Monticelio, che si trova sulla riva sinistra dei Trebbia, e che domina tutta la regione compresa tra l’imbocco della val Trebbia e quello della val Luretta, era presidiato da un distaccamento della VII brigata comandato da Barba 2° con 25 uomini. Mentre il commissario Gino Cerri, il comandante stesso del distaccamento e il partigiano Tom si trovavano in ricognizione sul monte Pillerone, alla sera di quello stesso giorno, ritornando al castello ritrovavano, ospite momentaneo, il comandante della XI brigata, Muro, con 6 uomini.

La ricognizione che era stata fatta sul monte Pillerone, di fronte al castello di Monticello, aveva dato esito positivo : il monte era occupato dalle S.S. del battaglione « Nettuno », armatissime e in assetto minaccioso. Il commissario Gino Cerri provvide ad avvertirmi subito del fatto, invitandomi a muovere immediatamente da Bobbio all’attacco delle S.S. con i russi, che avremmo in quel giorno messo alla prova per la prima volta.

Quando Barba 2° si era assunta la responsabilità di non ottemperare all’ordine del comandante Fausto, si era nello stesso tempo accordato col comandante della IX brigata, il « Valoroso », che in quel momento teneva a breve distanza la posizione di Monteventano. L’attacco delle S.S. si scatenò più rapidamente di quanto si potesse prevedere; non sorprese tuttavia i nostri che avevano predisposto un turno di guardia e avevano già ordinato i piani della difesa. A questo punto si dovrebbe svolgere la descrizione degli avvenimenti che caratterizzarono la giornata del 15 aprile: la battaglia durò dalle 4 alle 11 del mattino.

Il fatto che io non fossi presente mi obbliga ora a servirmi per tale narrazione di alcune importanti testimonianze che mi vengono da coloro che parteciparono all’azione e vi ebbero parte preponderante. Scelgo fra queste la testimonianza più viva e più completa, quella che è rappresentata dalla relazione scritta da Barba 2°, comandante di quel distaccamento della VII brigata. La precisione e la fedeltà di tale documento è provata dal fatto che i contenuti coincidono con quanto leggiamo nelle testimonianze di altri protagonisti. Ritengo perciò opportuno citarla direttamente.


« Il giorno 5 aprile, dal mio comandante ricevo l’ordine di trasferirmi con i miei uomini a Monticello di Gazzola, con compiti offensivi contro alcuni battaglioni di S.S. e brigate nere, dislocati nella zona di Montechiaro-Cisiano-Fabbiano-Rivergaro, nella bassa Val Trebbia. Partimmo da Cascina Boschi di Mezzano Scotti e arrivati a Monticello prendemmo alloggio nelle stalle vicine. Con noi si trovavano pure il commissario di brigata Gino Cerri e il partigiano Gobbi Francesco (Tom). Dopo esserci fatta consegnare la chiave della scuola elementare, che ha sede nel castello locale, cominciammo ad organizzare la cucina e i dormitori. All’alba del giorno 8 una compagnia di S.S. ed una di brigate nere, dislocate a Cisiano di Rivergaro, accupavano la cima del monte Pillerone, senza incontrarvi alcuna resistenza : la posizione era tenuta dagli uomini di un distaccamento della XI brigata, i quali dormivano tutti nelle stalle vicine alla quota.

Sulla cima del monte vennero piazzati 1 mortai da 81 mm. e due mitragliatrici pesanti, col compito di dominare le nostre posizioni di Monticello. Ogni giorno dalle 12 alle 19 i nemici facevano esercitazioni di tiro per colpire le nostre postazioni o dove potevano scorgere degli uomini. Il giorno li ricevemmo l’ordine di abbandonare Monticello per ripiegare a S. Giorgio di Bobbiano. L ’ordine proveniva dal comando divisionale, giustamente allarmato per gli attacchi di sorpresa che gli avversari erano soliti compiere. Mi consigliai con Gino Cerri: insieme decidemmo di rimanere a Monticello e di ritirare le nostre postazioni all’interno del castello. Il giorno 12 con lo stesso commissario mi recai a Monteventano, dove si trovava la brigata autonoma del comandante « Valoroso ». Discutemmo insieme del pericolo che potevamo incontrare rimanendo trincerati nel castello, ma il « Valoroso » e il suo vicecomandante Romeo ci assicurarono che avrebbero perso la vita pur di soccorrerci in caso di accerchiamento. Ritornati a Monticello disponemmo le nostre squadre così suddivise:
1) Sul campanile della chiesetta, che sta addossata al castello sul lato est, la squadra di Pedralli, Ramponi, Morselli, Lodrini, Bassi;
2) Nel salone del lato nord la squadra di Piersanti, Zanelletti, Gaio e 4 russi; 3) Nell’aula della scuola, sempre al lato nord, la mia squadra con Soardi, Cerri 1°, Mazzari, Albasi;
4) A pianterreno, a presidiare l’entrata est del castello, che era sprovvista di portone, la squadra di Gino Cerri, Tom, Stefanini (Balilla), Bernava, Bergantin, Scarezzato, Mascotto.

Il giorno 14 i rimanenti uomini del mio distaccamento, comandati da Leggi 1° e da Mazzocchi partivano in missione verso la pianura per ritirarsi poi il giorno 17. Nella giornata di domenica, 15 aprile, due pattuglie di 6 uomini ciascuna, comandata dal sottoscritto e da Gino Cerri, si dirigevano verso la cima del monte Pillerone, per studiare le possibilità di un nostro attacco di sorpresa, come eravamo stati abituati a compiere tante volte durante i duri mesi della lotta partigiana. Arrivammo a pochi metri dalla vetta strisciando sul terreno boschivo che si estende dalla parte di Monticello; studiammo con ogni cura le posizioni del nemico e i sentieri più facili per salirvi; non vedemmo nessuno degli avversari, solo due militari di guardia alle
postazioni, perchè tutti gii altri stavano riposando in luogo defilato alla vista.

Ci ritirammo soltanto all'imbrunire per non farci scoprire e arrivammo a Monticello alle ore 22. Qui trovammo il comandante Muro con 6 dei suoi uomini, che ospitammo a dormire nella paglia con noi. Dopo aver cenato tutti andarono a prendere le loro postazioni, stanchi della missione compiuta. Io, Cerri, Tom e Muro rimanemmo invece a discutere dell’attacco al monte Pillerone, che si doveva effettuare nella notte del giorno 17; ad esso avrebbe preso parte il nostro stesso comandante di brigata coi russi del distaccamento di Vaccarezza, comandato da Ambrosio.

Quando, dopo esserci salutati, entrai nella mia postazione, trovai tutti gli uomini addormentati, per cui feci loro una reprimenda un poco burrascosa. Decisi io stesso di fare la guardia alla finestra, perchè presagivo il pericolo che ci sovrastava. Dopo 20 minuti venne da me la sentinella di turno, alpino Soardi, per dirmi — e lo giurò dinanzi al Crocefisso appeso alla parete della scuola — che appena si fosse sentito stanco stanco avrebbe provveduto a svegliarmi per avere il cambio. Mi coricai alla 1,30, stanco delle camminate fatte durante la giornata.

Alle 3,40 una voce sommessa e trepidante mi svegliò: «Barba, Barba... Ci sono»: era Soardi che parlava sottovoce. A me sembrava di sognare e stentai ad aprire gli occhi, ma Soardi mi prese per un braccio e a forza mi scosse. Mi appressai allora alla finestra: nella tenue oscurità della notte che ormai volgeva al suo termine potei scorgere una lunga colonna di armati su due file, a 5 metri una dall’altra.

Costeggiavano la costa che da Pigazzano-Buffalora porta a monte Bissago. Parte di essi stava già piazzando le mitragliatrici pesanti sulla collinetta che domina le nostre finestre e tutto il castello dal lato nord. Alcune pattuglie di arditi avevano già compiuto il giro attorno al castello, senza incontrare nessuno di noi, per cui sottovoce dicevano: « Li prendiamo tutti vivi, perchè stanno dormendo ». Intanto un gruppo di 10 ufficiali, che sostavano a circa 10 metri dalla nostra finestra, davano gli ordini ai loro uomini per far irruzione all’interno del castello, attraverso il portone senza battenti che si trova dal lato del campanile.

Erano le 3,55 quando ci facemmo il segno della croce e Soardi, rivolto al Crocefisso ebbe a dire una preghiera per tutti: « Dio, proteggi i peccatori! ». Subito dopo lanciai dalla finestra la prima bomba anticarro, che scoppiò a brevissima distanza dei nemici che stavano sotto. Quasi contemporaneamente Soardi imbracciava il suo mitragliatore M. G. 42 ed apriva il fuoco. Quel tonfo e quegli spari diedero l’allarme generale a tutti i difensori del castello; cominciarono a sentirsi le grida dei feriti e i lamenti dei moribondi. Passato qualche attimo di sbandamento, i nemici attaccarono, sparando con tutte le armi, compresi i panzer-faust, che avevano portati sulla linea per far breccia.

La quantità dei proiettili che investivano la nostra finestra ed entravano nei locali era una cosa indescrivibile. Dilaniavano i muri verso l’esterno, tranciavano il ferro delle inferriate e molti penetravano nell’interno, forando e scrostando le pareti, mentre nugoli di polvere e di calcinaccio si abbattevano sulle schiene curve dei difensori e rodevano loro i polmoni. Fummo perciò costretti a ripararci nella tromba della scaletta a chiocciola, che sta a fianco dell’aula.

Qui cominciammo a pulire le armi impolverate e a prepararci per la difesa ad oltranza; alla nostra finestra più non era tuttavia possibile avvicinarsi, perchè tutte le armi battevano il luogo dal quale era partito il nostro primo colpo d’allarme. In tal modo le altre nostre postazioni potevano entrare in azione ed avevano via libera per decimare il nemico. Eravamo però isolati: ogni gruppo combatteva separatamente la sua battaglia, ma con ordine e sincronismo, come se una mente superiore dirigesse la scena. Un grande valore morale di quella giornata sta quindi nel fatto che i patrioti, pur combattendo separati, non abbiano permesso da nessuna parte l’entrata del nemico.

Sarebbe bastato un atto di vigliaccheria da parte di un mitragliere e l’edificio poteva essere invaso attraverso una delle numerose sue entrate. Ma i mitraglieri della VII brigata erano esemplari per servizio e fedeltà al dovere, come si era dimostrato anche in altre occasioni. Inoltre Tom si mostrò un tiratore scelto, Piersanti fu ottimo come sempre, Soardi, Ramponi, Pedralli, Zanelletti anch’essi e così tutti gli altri. Il « Balilla » tenne su il morale gridando e scherzando. Con le pistole a razzo i nemici chiedevano intanto l’intervento dei mortai dal monte Pillerone, ma questi non entrarono subito in azione per timore di colpire i compagni che assediavano il castello. Le pallottole incendiarie degli avversari appiccarono il fuoco ai fienili e ai porticati pieni di paglia, per cui si ebbe un incendio che investì il lato nord-est e quello nord-ovest del castello, minacciando le stalle, dove i bovini muggivano dal terrore, e minacciando i locali stessi tenuti dai difensori.

Alle 4,30 una voce del comandante nemico, resa tuonante attraverso un megafono, urlava per noi l’intimazione di resa: «Arrendetevi! Siete circondati da tutte le parti da 500 uomini. Non avete più vie di scampo. Non vi faremo niente, ma vi diamo 10 minuti di tempo per decidervi. In caso contrario non vi sarà più misericordia e vi ammazzeremo tutti quanti ». Non aveva però ancora finito di urlare che io gli risposi: «Gli alpini della VII brigata non si arrendono mai. Morte ai fascisti e ai tedeschi. Viva la libertà! ».

Cominciammo subito dopo a cantare l’inno partigiano « Urla il vento, soffia la bufera... » ed altri inni, ai quali si unì quello degli alpini: era la squadra di Pedralli e Ramponi che cercava di mettersi in comunicazione con noi. Poi rispose, sempre attraverso il canto, la squadra di Zanelletti, il quale subito gridò: « Barba, Barba, siamo tutti vivi. Morte ai fascisti! ». In realtà nella prima mezz’ora di combattimento 4 dei nostri alpini erano rimasti feriti e fra questi Bernava per ben due volte, in modo grave. Dopo una sommaria medicazione tutti ritornarono però volontariamente ai loro posti di combattimento e chi non era più in grado di sparare, aiutava i compagni nel passare le munizioni e nel ricaricare le armi.

Sette ore di combattimento, uno contro più di venti, provò ancora una volta di che tempra fossero gli alpini e i loro comandanti. Le camere piene di fumo e di scoppi, i lamenti dei feriti, i cupi boati delle granate che ogni tanto venivano a coprire il ticchiettìo rapido delle mitraglie, non valsero a smuovere la ferrea volontà dei difensori, decisi di resistere fino alla morte. I nemici attoniti d’incontrare una simile e organizzata resistenza, cominciarono dopo qualche ora di combattimento a dar segni di stanchezza e di sbandamento.

Alle ore 7,30 la nebbia e il fumo dell’incendio cominciarono a dileguarsi e noi tutti pronti per cominciare a colpire i mitraglieri avversari che stavano sdraiati fra le erbe dei campi che circondano il castello dal lato nord: dove si notava un elmetto si cercava di mirare per mettere fuori combattimento gli inservienti dell’arma. Dopo aver visto colpiti con tiro sicuro alcuni dei loro, i nemici furono costretti a ripiegare, lasciando libera la collinetta che domina le nostre finestre.

Così potemmo avere un po’ di respiro e dare man forte alle squadre di Pedralli e di Zanelletti. Alle ore 8 Gino Cerri abbatteva il muro che dal sottoscala confina con La cucina: potemmo in tal modo metterci in comunicazione anche con lui. Io intanto scendevo al piano terra per vedere come si presentava la situazione. Trovai Muro, che si congratulò per il mio attacco. A questo punto, verso Moglio, dalla parte di Monteventano, scorgemmo degli armati e vedemmo muoversi tra gli alberi, ma a causa del fumo e della nebbia, non potemmo subito capire se fossero dei nostri oppure repubblicani.

Per averne conferma lanciai allora tre razzi con la pistola «Very»: bianco, rosso, verde, i colori della bandiera, segnale convenuto in precedenza col « Valoroso ». Subito questi con 5 dei suoi uomini si avvicinò al castello dal lato sud e s’incontrò con Gino Cerri e con Muro. Questo congiungimento avveniva alle ore 8,50 circa. Il « Valoroso » salì subito nella scuola per stringermi la mano e per baciarmi, mentre andava gridando : « Abbiamo vinto! Abbiamo vinto! ». Gli feci però notare che nel vallone, che da Moglia porta alla fontana e alla strada che conduce all’osteria, c’erano ancora molti nemici, circa 300, rinchiusi come in una morsa.

Gli dissi perciò di non voler avanzare troppo nel campo che sale alla collinetta che domina a nord il castello. Egli mi strinse ancora la mano in segno di saluto e di augurio, mi disse di non abbandonare la mia postazione, dopo di che, insieme a Gino Cerri, partì per l’assalto decisivo. Intanto, alle 9,25 una granata avversaria colpiva il solaio della postazione di Zanelletti, e dopo aver forato il tetto penetrava all’interno scoppiando. Tutti rimasero feriti, per fortuna non in modo grave, e furono costretti ad abbandonare il loro posto di combattimento. Questo accadeva proprio nel momento più cruciale della battaglia, quando i nemici, correndo allo scoperto, si ritiravano lungo la strada che conduce all’osteria. Così rimanemmo soltanto io e Pedralli a fare il tiro a segno. Quando ebbi ultimato le munizioni della mitraglia, imbracciai il mitra e continuai il fuoco con quello. Anche Tom, Scarezzato e gli altri dalle loro postazioni falciavano gli avversari in ritirata. Nel frattempo il « Valoroso » e Gino Cerri, alla testa dei loro uomini, cominciavano l’assalto con panzer-faust tolti al nemico e con bombe anticarro. I repubblicani, sconvolti e terrorizzati dalla micidiale azione dei .partigiani, ridotti all’estremo, gettarono le armi e si diedero ad una fuga disordinata.

Alle 9,40, visto lo sbandamento provocato nelle file nemiche, il « Valoroso » insisteva nella sua azione travolgente ed avanzava ancor più nel vallone che porta alla collinetta, allo scopo di farsi notare da noi, che lo proteggevamo col nostro tiro. Infatti dal basso ebbe a gridarmi: « Barba, Barba, non sparare che siamo noi ».

Gli risposi allora: « Va’ via, che ti fai ammazzare. Non vedi che c’è pieno di loro », allarmato dalla presenza dei numerosi nemici che ancora potevo scorgere dall’alto. In quella una raffica di fucile mitragliatore lo investiva, colpendolo al ventre. Cadde senza un lamento. Fu subito soccorso dai suoi uomini e trasportato nelle vicine case di Moglia. Malgrado le cure prestategli spirava poco dopo tra lo strazio dei suoi. Le sue ultime parole furono: « Siate bravi patrioti, curate i feriti, non maltrattate i prigionieri e perdonate agli italiani che non la pensano come noi... Viva l’Italia! Viva i partigiani! ».

Io lasciai la mia postazione alle 10,20 e insieme a Soardi, Stefanini, Mazzari e Cerri 1°, uscimmo nel vallone sottostante per soccorrere i feriti, dato che tutti gli uomini del « Valoroso » si erano ritirati per scortare il loro comandante. Appena all’inizio del vallone trovammo Gino Cerri morto, con le mani alla fronte e la faccia rivolta a terra. Lo riconoscemmo subito dal maglione giallo che indossava. Una pallottola l’aveva colpito al cuore; morì sull’istante. Accanto a lui stava il suo mitra e tre nemici erano distesi cadaveri ai suoi piedi.

Cominciammo il rastrellamento dei prigionieri: eravamo soltanto in cinque, perchè tutti gli altri partigiani si erano ritirati per ordine di Muro. Nel vallone catturammo 25 prigionieri e fra questi vi erano 12 feriti gravi che non potevano camminare. Il nemico lasciò sul terreno 56 morti, 2 mitragliatrici pesanti, 12 fucili mitragliatori, 102 fra mitra e moschetti, panzer-faust, munizioni di ogni genere, giubbe, elmetti, pistole ed altro materiale. Le perdite compresi i morti, i feriti e gli assenti, furono di 224 unità. La battaglia cessò alle ore 10,50. A mezzogiorno più di 200 partigiani arrivarono da tutte le parti a commentare il fatto.

Con me rimase solo Stefanini, Cerri 1°, Albasi e Mazzari. Alle 14 una famiglia, che abita vicino al castello, ci invitò a mangiare dei polli. Erano una parte dei 30 volatili, uccisi dai nemici per festeggiare la loro vittoria in « barba ai ribelli ». Invece cambiarono bocca! Alle 16 tornammo al castello, dove mi raggiunse l’oste di Monti cello per dirmi che c’era a casa sua un prete che cercava il comandante dei partigiani.

All’osteria trovammo il parroco di Pigazzano, che si disse venuto per parte dei nemici, per chiedere una tregua di 48 ore a partire dalle ore 16 del lunedì alle 16 del mercoledì 18 aprile. In nome del mio comandante di brigata accordai la tregua e firmai per lui il documento relativo, che fu stilato in triplice copia.

Il giorno 17 vennero consegnate 56 salme; fra le quali 10 di marescialli, 6 di sottotenenti, 2 di tenenti, 5 di sergenti e una di capitano delle brigate nere. Quest’ultimo, accortosi che 5 dei suoi uomini stavano per arrendersi a noi, li falciò con raffiche del suo mitra.

Allora Pedralli, disgustato per quest’atto infame, lo uccise con una raffica della sua mitraglia, proprio sulla porta dell’osteria. Nell’infermeria improvvisata dal nemico trovammo 12 braccia staccate dal tronco e lasciate abbandonate. L ’oste mi disse che poco dopo il primo scoppio erano cominciati ad affluire i feriti. Soggiunse che più di 70 furono medicati durante il corso della battaglia, che due medici militari prestarono ininterrottamente la loro opera finché rmasero senza materiale di medicazione, che molti feriti erano poi morti sui carri, mentre venivano trasportati verso Rivergaro.

Le perdite partigiane furono di 5 uomini: Gino Cerri, il « Valoroso », « Cicogna » (Ciceri Carlo) della IX brigata, Passerini Aldo e « Nestore » della III brigata. I nostri feriti furono 7: Bernava, Piersanti, Tom, Morselli, Soardi, Zanelletti e Lodrini. Seppi da Soardi che alcuni prigionieri nemici credendo di farsi benvolere da noi si erano messi sul bavero delle stelle rosse e che Muro gridò loro di vergognarsi ». Qui finisce la relazione della battaglia di Monticello, fatta da Barba 2° (Annoni), partigiano alpino della VII brigata.

Il 17 aprile scendeva a Monticello il distaccamento di Barba 1° per dare il cambio a quello di Barba 2°, provato dal combattimento. Ormai gli avvenimenti incalzavano e la guerra volgeva verso il suo epilogo. Occorreva quindi non dar più tregua al nemico, ma impegnarlo, attaccarlo e annientarlo, sfruttando le sue ormai depresse condizioni di spirito. Un ordine operativo trasmesso in quei giorni dal comandante Fausto parlava infatti chiaramente: intensificare gli attacchi e la guerriglia allo scopo di accelerare il processo di disfacimento dell’avversario, che, almeno nella val Trebbia, dopo la disfatta di Monticello, cominciava a dar indubbi sintomi di autentico sbandamento. Il 18 aprile Barba 1°, scortato da un solo alpino, faceva ingresso a Gossolengo per prelevare materiale bellico del nemico.

Avvistato da una pattuglia di 15 tedeschi, veniva circondato, ma sebbene ferito alla testa riusciva a sganciarsi e a porsi in salvo. Due giorni dopo le S.S. e i militi della brigata nera « Turchetti » evacuavano la zona di Rivergaro.

Il giorno 23 gli alleati, occupata Modena, marciavano verso il Po. Da più giorni intanto notizie confortanti andavano incalzando: ovunque i partigiani erano vittoriosi e i nazifascisti battuti. Piacenza attendeva; la città di Piacenza che si era comportata coraggiosamente e che ora, nell’attesa, continuava a resistere.

I partigiani ancora non c’erano e pur si può dire che già dominassero la città; il cui popolo aspettava da un minuto all’altro di vederli comparire. Il momento tanto atteso da tutti era giunto e un ordine operativo segreto dava il via. Tutte le brigate si portavano sulle colline prospicenti la pianura e cominciavano le azioni in grande stile. Le resistenze opposte da elementi tedeschi, fascisti e mongoli, venivano rapidamente eliminate e Borgonovo, Castelsangiovanni, S. Nicolò, Niviano venivano liberate dai reparti della divisione « G. L. ».

Ad ogni formazione il comandante Fausto aveva assegnato un proprio settore tattico; in particolare alla VII brigata alpina, che dopo l’eroica morte del suo commissario aveva preso il suo nome, aveva assegnato il settore dell’estrema ala destra dello schieramento divisionale, lungo la statale N. 45. Il giorno 25 gli alpini muovevano da Bobbio per unirsi a Rivergaro col distaccamento di Monticello.

Dietro di essi venivano di corsa Barba 1° e i feriti, che erano corsi via dall’ospedale di Bobbio per non mancare sulla linea alla nuova caccia. Recavano coccarde tricolori per tutti : erano il trepidante pensiero e il lieto augurio con cui ci seguivano le ragazze di Bobbio. Il giorno 26 la VII brigata occupava senza incontrare resistenza l’abitato di Quarto, a circa 6 km. dal capoluogo della Provincia. Nello stesso giorno m’incontravo a Gossolengo con Fausto per ricevere le sue ultime direttive. Con lui stavano altri comandanti di brigata dei settori vicini, in una atmosfera febbrile e piena d’entusiasmo. Nel pomeriggio la VII brigata era di nuovo in marcia verso Piacenza, disposta in ordine di combattimento su due file, che procedevano ai bordi della statale N. 45, dietro la bandiera tricolore sventolata dal nostro « Balilla ».

Non credo che vi fossero altri partigiani davanti a noi in quella direzione. Solo fummo raggiunti alle spalle da un automezzo militare che aveva a bordo un capitano e un tenente della missione alleata, che già ci avevano conosciuto a Bobbio. Ci invitarono alla prudenza. Sempre nel pomeriggio dello stesso giorno raggiungemmo la periferia di Piacenza; là schierai gli alpini tra le rovine della Galleana, a circa un chilometro dalla città. Subito si ebbe il contatto del fuoco col nemico che stava asserragliato nelle cascine e nelle villette della periferia; riuscimmo a snidarlo e a co stringerlo alla ritirata. Io stesso con Tom, uno dei migliori della battaglia di Monticello, mi portai in città dalla parte di Porta Genova.

I nazifascisti che disponevano di mezzi corazzati ci costringevano però ad asserragliarci in una casa. Nonostante l’accanimento del combattimento ci ritirammo solo a notte fatta per raggiungere i nostri uomini. Nella notte tra il 26 e il 27 la VII brigata si ritirava dalle sue posizioni avanzate per ordine di Fausto, ma manteneva i collegamenti e staccava in avanscoperta pattuglioni di sicurezza per evitare sorprese da parte del nemico.

Alle prime luci dell’alba gli alpini erano di nuovo sulla linea; subito si accendevano furiosi combattimenti contro pattuglie d’alleggerimento sganciate fuori dalla città dall’avversario, che ormai sentiva come il cerchio partigiano si stesse stringendo tragicamente. Piacenza era investita da tutte le parti, ovunque si combatteva e i nemici si battevano con la forza della disperazione e, più che altro, per motivi di orgoglio. Sul fianco sinistro e su quello destro della VII brigata stavano schierati i patrioti di Muro e quelli della val Nure, ed anch’essi si alternavano in attacchi e contrattacchi violenti.

C’erano pure le avanguardie degli alleati, nel frattempo sopraggiunte coi loro carri armati, ma queste non parteciparono alla lotta per lasciare ai partigiani l’onore dell’espugnazione della città. Gli alpini della VII brigata erano muniti di mortai da 81, provenienti da aviolanci e donatici da Fausto dopo il fatto d’arme di Monticello. I nostri mortaisti ben diretti da Mazzucco e dal capo arma Micheli fecero miracoli, battendo senza posa e con precisione le postazioni nemiche: persino un’autoblinda tedesca, che aveva fatto una sortita, fu presa sotto il loro fuoco e costretta subito a rientrare in città.

A questo punto, lasciate alcune squadre nelle postazioni al comando di Mazzucco, col grosso della formazione cercai d’incunearmi nello schieramento nemico per poi prenderlo di fianco. La comparsa improvvisa di alcuni carri armati tedeschi frustava però l’azione e rendevano impossibile l’attuazione del piano. Io stesso mi trovai circondato e a stento riuscii a salvarmi, buttandomi nell’acqua di un canale d’irrigazione. Sempre sotto il fuoco avversario raggiunsi dapprima le posizioni tenute dai partigiani di Muro e poi i miei alpini che già mi avevano dato per morto. Questa notizia arriverà, purtroppo, e non so come, sino a Bobbio, suscitando dolore, sgomento e anche un certo sentimento di vendetta, perchè i carabinieri della brigata, rimasti in città con compiti di presidio e di polizia, infieriranno contro un prigioniero. Nelle prime ore della mattina del 28 aprile, i partigiani delle varie formazioni piacentine, superate le ultime, sporadiche resistente nemiche,
entravano in Piacenza.

Dapprima sommessa, segreta, incerta e dubbiosa, poi a rimbalzi e lampeggi, come una luce che sta per sorgere, una notizia riempiva la città: — I partigiani arrivano, sono qua, alle porte! — Finalmente i cittadini videro coi loro occhi i partigiani, per molti dei quali era, tuttavia, in attesa la morte eroica, dopo la vittoria. Alle ore 7 antimeridiane anche la VII brigata faceva ingresso in Piacenza da Barriera Genova, in formazione di combattimento. Alcuni cecchini tiravano a colpo sicuro dai tetti e dalle torri. Per tre giorni continuarono le sparatorie e i combattimenti isolati entro la città, durante i quali gli alpini catturarono e passarono per le armi due franchi tiratori.

La liberazione di Piacenza era però costata, come si è detto, altro sangue partigiano ed erano eroicamente caduti tra gli altri a Barriera Genova, nel tentativo di penetrare in città, i componenti di una pattuglia avanzata: un giovane studente, Giorgio Gasperini, insieme con G. Battista Anguissola, Amedeo Silva e Giacomo Alberici. Alla VII brigata venne subito affidato da Fausto il presidio del palazzo della Prefettura. Era questo il premio più ambito che gli alpini potessero attendersi, un giusto riconoscimento del loro valore, della loro efficienza, della loro disciplina, delle loro garanzie di serietà e di sicurezza.

E gli alpini non si smentirono neppure questa volta. Col 5 maggio 1945 finiva l’attività bellica dei patrioti e si giungeva all’epilogo grandioso, semplice come tutte le cose grandi: la sfilata attraverso le vie della città, in un’atmosfera grande di tripudio. Ma quanti fra i presenti non erano stati partigiani!

In questa breve storia, che è la storia di una sola delle brigate che operarono nella vai Trebbia, i figli del nostro popolo che dovrebbero crescere negli ideali di patria e di libertà, troveranno le parole grandi di amore e di sacrificio che i loro fratelli, i loro padri, pronunziarono dinanzi al pericolo, o nell’agonia, sentendo di parlare a chi doveva raccogliere l’eredità del loro sangue. Mi auguro che quelle parole possano divenire nel cuore dei fanciulli di oggi, giuramento di fedeltà ad una Patria libera per cui sempre si deve lottare, vincendo il proprio egoismo, la propria fiacchezza dinanzi al lavoro, la propria paura dinanzi alla morte.

L’avv. Fausto Cossu ci invita a pubblicare, a norma dell’art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, la seguente lettera, contenente alcune sue precisazioni in merito al memoriale di Italo Londei:
Sig. Direttore, Nel n. 59 - i960 di « Il movimento di liberazione in Italia » leggo la narrazione del sig. Italo Londei « La lotta partigiana nella vai Trebbia attraverso la storia di una brigata », la quale oltre a essere in parte inesatta nel senso storico contiene affermazioni lesive del buon nome della divisione C. V. L. da me comandata e della mia dignità di comandante. La prego pertanto di pubblicare nel periodico da Lei diretto e nel prossimo n. 60 queste mie precisazioni e dichiarazioni. Ritengo utile far ciò prima perchè è giusto che i bobbiesi leggano la vera storia della lotta svoltasi intorno alla loro città poi perchè sono profondamente convinto che la storia della liberazione non si deve fare denigrando le formazioni e i loro comandanti ed esaltando se stessi: A pag. 54 il sig. Londei racconta che il 7 luglio 1944 dopo averla conquistata consegnò a me la città di Bobbio i prigionieri e le armi. Devo chiarire che a quell’epoca il sig. Londei non aveva comando di reparto nè reparto. Era il giovanissimo partigiano Londei di Bobbio e non rappresentava che se stesso. Non fece a me la consegna nè della città, nè dei prigionieri, nè dei materiali. Comandava una propria squadra invece il sig. Virgilio Guerci il quale effettivamente fece la consegna dei prigionieri e dei materiali ad ufficiali da me incaricati. La verità è la seguente : Il comandante Virgilio, ufficiale dei bersaglieri, dopo aver partecipato ai moti rivoltosi di Bologna verificatisi dopo 1’8 sett. 1943, era tornato a Bobbio e si era rifugiato in montagna. Qui, nella zona di Coli, aveva organizzato un reparto di locali ex combattenti ed aveva cominciato ad agire. Egli era da tempo in collegamento con il brigadiere della G., N., R. di Bobbio, certo Massari, il quale appunto nei primi di luglio lo avvertì che i reparti fascisti della città, ormai scoraggiati dalle azioni partigiane in val Trebbia continue e ininterrotte, si sarebbero subito arresi se attaccati. Fu allora che Virgilio con la sua squadra di Coli preparò e attuò l’attacco su Bobbio. E quando all’alba del 7 luglio stava disponendo gli uomini per l’attacco, nei pressi della località di Caneto si presentò a Lui, in compagnia di altro partigiano il sig. Londei il quale domandò di cosa si trattasse e chiese ed ovviamente ottenne di partecipare all’azione. Successivamente si aggregò anche Mix. L'azione, secondo le giuste informazioni del Massari, si svolse senza colpo ferire e una volta ottenuta la resa, Virgilio fece entrare in città gli uomini che aveva disposto per l’attacco e proseguì al disarmo. Di quanto sopra intanto, tramite certo sig. Bianchi, aveva avvertito il comando della divisione « Giustizia e libertà », e per l’esattezza, le stesse notizie furono comunicate anche dal geom. Cesare Follini al comandante Pippo che allora aveva un presidio a Bocchè e che da tempo con azioni continue attaccava le vie di comunicazione dei reparti di stanza a Bobbio. Il Comando di divisione quindi dispose l’invio a Bobbio di un adeguato reparto per il presidio della città che non ebbe nessuna formale consegna da parte di nessuno. E’ vero che dopo la resa del presidio fascista di Bobbio il sig. Londei fu nominato aiutante maggiore al comando di divisione, ma egli non era persona a me sconosciuta perchè con missiva pervenutami tramite il C.L.N. di Piacenza il compianto avv. Daveri me lo aveva raccomandato quale suo parente fornendomi di Lui ottime informative e spiegandomi che in passato aveva fatto poco felici esperienze, in altra zona.

Sugli arruolamenti comunque è da osservare: in montagna non avevamo l’ufficio anagrafe nè il casellario, tuttavia nei limiti del possibile si assumevano informazioni sulle persone a cui venivano affidate responsabilità e all’uopo al comando dell’Alzanese vi era anche un servizio di carabinieri in collegamento con il comando militare di Piacenza il cui rappresentante per G. L. era il sig.. Filippo Laiatta. Non mi sono mai pentito di avere assunto gli ufficiali che si presentarono alla formazione e di aver conferito incarichi di comando e non risponde a verità che nelle file della divisione figuravano « con incarichi e responsabilità di comando parecchi elementi incapaci e inetti e gravemente compromessi con il fascismo ». Basta sul punto ricordare il comportamento di ben 13 comandanti di brigata di cui una medaglia d’oro e una d’argento alla memoria e quello di tutti e, sono numerosi, i comandanti di distaccamento che per la maggior parte erano già ufficiali nelle forze armate. Il sig. Londei comunque è pregato di fare il nome e il cognome degli inetti, degli incapaci e dei compromessi. In argomento di compromessi poi egli è quello che nella formazione ha fatto le migliori esperienze perchè la brigata che in seguito potè formare dopo i fatti narrati era costituita per la quasi totalità di elementi che già avevano servito nelle file nemiche e che comunque nelle file partigiane si comportarono ottimamente, partigiani e ufficiali. A pag. 55 il sig. Londei dice che le gelosie e le rivalità avevano diviso i partigiani di una stessa formazione. Fa quindi apprezzamenti personali sul mio operato e sulla mia condotta e conclude che gli scontenti erano la maggioranza. Sono convinto e posso assicurare di non aver comandato una formazione di scontenti. Così come sono convinto che non si poteva allora comandare nelle condizioni che il sig. Londei ben conosce a 3-4 mila uomini in montagna per tanti mesi tenendoli scontenti. Ma il sig. Londei mi muove formale accusa di aver distribuito incarichi con troppa facilità e richiama il caso del sedicente maggiore dell’aeronautica sul quale sarà bene chiarire quanto segue: immagino che si tratti del sig. Chiatto, che al momento della liberazione di Bobbio era commissario prefettizio del Comune. Egli si presentò quale maggiore dell’aeronautica invalido per incidente di volo. Aveva tutte le carte in regola e mi riferì che si trovava in alta Italia con incarichi speciali che nel momento non poteva rivelare. Si mise a disposizione del comando partigiano e, quanto meno, chiedeva asilo nel territorio controllato dalle forze del C.V.L. Gli fu così concesso di rimanere in zona e prese alloggio in una cascina. Quando si trattò di approntare un campo di atterraggio nel greto del Trebbia ebbe l’incarico unitamente ad altro ufficiale dell’aeronautica di provvedervi. Tutto qui. A liberazione avvenuta si presentò a me a Piacenza in Questura accompagnato da un ufficiale inglese e mi riferì di essere stato e di essere al servizio di una organizzazione informativa dell’esercito inglese. L’ufficiale alleato confermò la notizia e partirono insieme. A pag. 58 il sig. Londei parla di inconvenienti relativi alle distribuzioni ai reparti del materiale paracadutato e sul punto posso affermare anche a nome di tutti i comandanti di brigata, che me ne hanno dato preciso incarico che per quanto riguarda la formazione da me comandata è da escludere categoricamente: a) che il materiale venisse distribuito in forma disuguale fra i reparti; b) che esso comunque fosse fatto addirittura sparire o immagazzinato e non distribuito. E anche su questo punto il sig. Londei è pregato di indicare il nome e il cognome di quei comandanti che occultarono, sottraendolo ai partigiani, il materiale paracadutato.

Il sig. Londei a pag. 61 (ultima parte) e a pag. 62 riferisce di essere tornato a San Giorgio dopo una malattia e di avere trovato il posto occupato da un tale che millantava di essere inviato del P. C. con incarichi ambigui che ingannò il comandante ed ebbe credito. Si tratta se non andiamo errati del sig. Mario Lazo, il quale si presentò al comando di divisione ben conosciuto perchè parente di Remigio il padrone dell’Alzanese. Era stato inviato dal C.L.N. in qualità di ufficiale di collegamento con tanto di carte in regola e non ingannò nessuno. Non è vero poi che egli prese il posto al sig. Londei. Come altri giovani ufficiali in attesa di destinazione fu assegnato al reparto comando per i collegamenti col C.L.N. Dopo la partenza del sig. Londei e solo dopo fu nominato aiutante maggiore. La verità è che quando il sig. Londei chiese e ottenne di lasciare il comando di divisione lo fece perchè aveva la legittima aspirazione di diventare comandante di brigata. Egli in questo suo proposito fu aiutato proprio da quel comando di divisione che nella sua descrizione mostra di voler disdegnare. Ed è vero infatti che per formare il suo reparto furono raccolte le adesioni volontarie dei prigionieri internati nel campo di Mogliaccio e che con queste adesioni ebbe origine la brigata comandata dal sig. Londei. Il comando di divisione pertanto diede al sig. Londei uomini, materiale e mezzi e ogni altro aiuto.

Continua quindi il sig. Londei nella descrizione dell’atmosfera caotica che regnava nel comando di divisione per la presenza anche di una sedicente spagnola. Sul punto il narratore non è informato. C’è da precisare: la donna non fu catturata dagli uomini del Valoroso. Fu fermata da una squadra del Ballonaro in Pianello mentre era diretta in montagna cercando il comando di divisione dove fu accompagnata e dove si presentò quale simpatizzante del movimento partigiano. E’ vero che essa destò subito dei sospetti che fosse venuta in montagna con una missione da svolgere da parte fascista. Fu perciò inviata a San Giorgio dove c’era una camera libera nella casa colonica del distaccamento, nella quale erano detenute anche altre due prigioniere. Non è vero che essa era diventata la vivandiera del reparto comando. Non è categoricamente vero che abbia mai presenziato a conversazioni a carattere militare che sempre venivano trattate con i comandanti di brigata al comando dell’Alzanese nella camera da pranzo di Remigio e con le adeguate riservatezze, e, per essere precisi, con i carabinieri alla porta. Non è vero infine che fu fucilata perchè sapeva troppo. Essa fu sempre sorvegliata da ufficiali con il preciso ordine di seguirla in tutti i suoi discorsi. Rimase a San Giorgio non più di dieci-dodici giorni e quindi fu trasferita nel campo di internamento del Mogliaccio. Qui fu scoperta in flagrante spionaggio con delle missive dirette all’ufficio politico di Piacenza e con
schizzi panoramici dei luoghi. Fu giudicata perciò da un consiglio di guerra che si tenne presso il comando della terza brigata e condannata alla pena capitale.

Alle pagg. 64-65-66 e 67 il sig. Londei descrive le azioni relative agli attacchi condotti da lui contro le postazioni degli Alpini della Monterosa disposti nel cerchio della città di Bobbio. Belle azioni e degne della massima considerazione perchè, come dice il sig. Londei, gli alpini venivano catturati e passavano armi e bagagli alla VII brigata. Ma in omaggio sempre al principio della verità alla descrizione del sig. Londei bisogna aggiungere un particolare che nella vicenda ha avuto il suo peso e che al sig. Londei è proprio sfuggito: la maggior parte di quelle azioni infatti venivano preparate in Bobbio nella bottega del barbiere Fruschelli Egidio, il quale rischiando ogni giorno la pelle, mentre radeva la barba agli alpini che si recavano nel suo laboratorio, fra una parola e l’altra, li convinceva a passare ai partigiani prendendo con essi i dovuti accordi sul posto, il giorno, l’ora e il momento in cui essi si sarebbero consegnati. Una volta raggiunti gli accordi il Fruschelli li comunicava al sig. Londei che metteva in opera le relative azioni. Vero è che alle volte non tutti gli alpini si volevano consegnare e che nel gruppo vi era spesso il dissidente che, ignaro di tutto e stupefatto si vedeva capitare l’azione dei partigiani e la resa dei compagni, ma non per questo nella narrazione si doveva omettere l’azione spericolata svolta dal giovane barbiere. Questi fu scoperto poi ed arrestato e si salvò da morte sicura con un’avventurosa fuga non meno spericolata.

A pag. 68 il sig. Londei parla dell’azione svolta dalla IV brigata sulla sponda destra del Trebbia e fa assumere alla formazione atteggiamento teatrale di canterina. La narrazione non è esatta. La IV brigata provata duramente dalla battaglia del Penice, per ordine del comando di divisione, si ritirò nella zona di Gavi per rinsaldare le sue file. Il suo comandante però non ne volle sapere di rimanere inerte e promosse varie e numerose puntate contro i presidi fascisti di Bobbio. In una prima azione una squadra della IV agli ordini del capo squadra Andrea Mozzi assalì e catturò un reparto di alpini con mulo e materiali. Successivamente sempre la IV spiegò numerose azioni di guerra contro gli alpini e in diverse riprese ebbe anche i seguenti partigiani caduti gloriosamente che tutti a Bobbio ricordano con commosso rimpianto: Platè Agostino e Ridella Giovanni. Il partigiano Carbone Vittorio invece rimase gravemente ferito. In seguito la IV ebbe altri combattimenti e in uno di essi trovò la morte il partigiano Rossetti di Gerolo di Rivergaro. Questa brigata pertanto, sempre in omaggio al principio della verità, non cantò teatralmente sulla sponda del Trebbia, ma combattè e duramente lasciando il sangue sui sassi neri delle sponde del fiume. La ringrazio per la pubblicazione., Fausto Cossu, Comandante della la div. « Piacenza » del C.V.L.

Secondo la prassi normale rispondo brevemente alle precisazioni dell’avv. Fausto Cossu: anzitutto confermo tutto quello che ho scritto nella prima puntata delle mie memorie, in quanto si tratta di cose di cui ho necessariamente una conoscenza più precisa, poiché fanno parte della mia esperienza diretta. Faccio solo notare che, con stupore, vedo che nelle precisazioni dell’avv. Cossu rientrano contestazioni intorno a fatti e a vicende che io non ho ancora narrato, e che quindi non potevano essere oggetto di rettifica in quanto non sono state pubblicate nel numero 59 della « Rassegna ». Comunque, anche astraendo dalla precedente osservazione, penso che trattandosi di pagine di memorie, che per loro carattere sono sempre state e sempre saranno in tutti i tempi legate a una visione personale dei fatti, di cui ciascuno di noi è stato protagonista, è naturale che esse provochino dissensi nati dai differenti punti di vista: lo storico verrà poi e terrà conto delle diverse interpretazioni in modo che ne esca una visione decantata ed equilibrata degli avvenimenti. Sarebbe perciò augurabile che l’avv. Fausto Cossu, quale comandante della divisione « Piacenza », scrivesse anch’egli le sue memorie e consegnasse così allo storico futuro un prezioso patrimonio documentario.
I. L.

(Italo Londei mostra la foto che lo ritrae mentre, alla testa della Settima Brigata, sfila in piazza Cavalli a Piacenza il 5 maggio 1945 (foto: Davide Rovani)

 

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(La battaglia di Monticello raccontata da Mauro Annoni figlio

del partigiano Barba II)

 

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(Unità antifascista, lo spirito del CLN)

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(Raduno di ex-partigiani a Bobbio - 1952)

 

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