Il generale Giuseppe Bellocchio alla direzione militare del movimento partigiano.

Relazione svolta da Romano Repetti (A.N.P.I.) sulla base dei documenti originali che Italo Londei aveva depositato presso il Museo del Risorgimento di Milano e cioè:

*il Piano Generale per la insurrezione della città di Milano predisposto da un gruppo militare presieduto dal generale Bellocchio

*ed una relazione dello stesso sulla propria attività partigiana dall’armistizio dell’8 settembre 1943 alla Liberazione.

Verso la metà di quel mese di settembre 1943, ricostituto, per volontà e sotto la protezione hitleriana, il regime mussoliniano, anche Bellocchio fu avvicinato e sollecitato a rientrare nei ranghi militari del regime fascista di Salò ma rifiutò e fu fra i non molti generali del regio esercito italiano presenti l’8 settembre nelle regioni occupate dai tedeschi, che non solo rifiutarono di entrare al servizio di tale regime e quindi degli occupanti tedeschi, ma si unirono poi ai partigiani per contribuire a liberare l’Italia dal nazi-fascismo.

Ormai identificato come oppositore e ricercato - a lui non era facile camuffarsi dato il suo fisico caratteristico: l’alta statura, la corposità, la ruvida voce - riparò inizialmente a Milano prendendo contatto con altri ufficiali che vi vivevano clandestinamente. Successivamente si sposto nell’Oltrepò pavese, ospite per brevi periodo di quattro diverse famiglie fra Stradella e Canneto Pavese. Fra la metà di gennaio e la fine di febbraio del 1944 visse presso una cugina per parte di madre, nella frazione Ceradello di Carpaneto Piacentino.

Saputo che la sua presenza era stata segnalata alle autorità nazi-fasciste piacentine rientrò a Milano, tenuto conto che in una grande citta era forse più facile vivere in clandestinità e non essere vittima di spie. A Milano si inserì così organicamente nel gruppo miltare di resistenza al nazifascismo guidato dai generali Bortolo Zambon e Giuseppe Robolotti, in rapporti di collaborazione con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia che si era nel frattempo costitutito e operava clandestinamente. Quei due generali il 25 maggio del ’44 furono però arrestati dalle milizie di Mussolini, Robolotti fu deportato nel campo di concentramento di Fossoli in provincia di Modena e lì fucilato, mentre Zambon riuscirà invece più avanti a salvarsi evadendo dalla prigione di San Vittore con l’aiuto di complicità interne.

Bellocchio, generale di Divisione, venne così ad essere l’ufficiale più alto in grado del gruppo militare milanese e quando ai primi di giugno gli esponenti dei diversi partiti politici antifascisti che componevano il CLN Alta Italia, al fine di dare una direzione unitaria alle diverse formazioni partigiane che si erano andate sviluppando nel Nord e centro Italia, decisero di dare forma al Corpo Volontari della Libertà e di nominarne il Comando Generale chiesero a lui di entrare a farne parte come esperto militare: Bellocchio vi assunse il nome partigiano di Giuseppe Comaschi.

Tale comando era composto da lui e da un rappresentante per ognuno dei cinque partiti antifascisti, il Partito d’azione, il Partito comunista, la Democrazia Cristiana, il Partito socialista e il Partito liberale, ma al suo interno operava un vertice di tre membri:

il generale Bellocchio appunto,

l’azionista Ferruccio Parri, che nel giugno del 1945 diventerà il primo Capo del governo dell’Italia liberata,

e Luigi Longo, vice segretario allora del Partito comunista e capo delle Brigate Garibaldi.

 

Bellocchio era di sentimenti monarchici, si puo dire che era entrato nella Resistenza per fedeltà al giuramente fatto al re Vittorio Emanuele III. In concreto, rispetto ai diversi partiti antifascisti che fino da allora in qualche misura erano in concorrenza fra di loro e che anche nel movimento partigiano cercavano di rafforzare le rispettive posizioni, Bellocchio costituiva una figura indipendente e gli fu riconosciuto che si comportava con imparzialità nei confronti delle diverse componenti partitiche.

Naturalmente le funzioni svolte da quel Comando Generale del CVL non erano uguali a quelle del Comando supremo di un esercito, quel comando non era in condizione di pianificare la gran parte delle azioni militari contro i nemici e di esercitare una indiscutibile autorità di comando sulle diverse formazioni partigiane diffuse nel territorio italiano. In realtà ogni formazione partigiana decideva autonomamente le proprie azioni in relazioni alle condizioni locali, andando all’attacco delle forze e posizioni nazifasciste se intravvedeva possibilità di successo, o rispondendo agli attacchi di queste.

Inoltre il movimento partigiano rimaneva suddiviso in Brigate Garibaldi, sulle quali esercitava influenza il Partito comunista, in Brigate Giustizia e Libertà che facevano riferimento ad esponenti del Partito d’azione, nonché in altri raggruppamenti, quali Le Fiamme Verdi e le brigate Matteotti. Il Comando Generale del CVL provvide però a suddividere il territorio italiano a presenza partigiana in Zone corrispondenti in larga misura alla province:la provincia di Piacenza, meno l’alta Val Trebbia e l’annessa Val d’Aveto, divenne ad esempio la XIII Zona partigiana.

Provvide poi a nominare, d’intesa con i CLN provinciali, i Comandanti di Zona:

Emilio Canzi ad esempio divenne comandate in capo della nostra XIII zona su nomina del Comando Generale del CVL. Tale comando gestiva poi un servizio informativo riguardante sia la consistenza e le azioni delle formazioni partigiane che la consistenza e presenza delle forze fasciste e tedesche, e provvedeva ad informare le formazioni partigiane dei movimenti e programmi di rastrellamento dei nazi-fascisti. Unitamente al CLN il Comando militare teneva i rapporti con le forze alleate anglo-americane e ne sollecitava i lanci aerei, di armi, munizioni ed altre forniture. Inoltre il Comando Generale del CVL forniva naturalmente orientamenti ed indicazioni alle formazioni partigiane sui comportamenti da tenere e in determnati momenti, quali i grandi rastrellamenti nazi-fascisti, cerava di coordinare le azioni di più Zone partigiane.

Il Comando, ricorda Bellocchio nella relazione che ho citata, teneva ogni settimana una riunione plenaria ed il suo vertice a tre oltre ad un’altra riunione o due. Per non farsi scoprire erano costretti periodicamente a cambiare sede di riunione e anche Bellocchio personalmente nella sua permanenza a Milano dal marzo ’44 all’aprile ’45 cambiò ben otto diverse case di abitazione, per un mese trovò rifugio presso l’Ospedale Niguarda.

Per fortuna esiteva anche a Milano una diffusa di solidarietà antifascista. Teniamo presente che se non si fosse unito alla Resistenza, Bellocchio, data la sua età, evrebbe potuto rirtirarsi a vivere senza rischi nella sua casa di Bobbio.

Durante quell’estate del ’44 crebbe la diffusione e la consistenza del movimento partigiano ed il suo contributo alla lotta non solo contro il regime fascista di Salò ma anche contro le forze militari tedesche di occupazione. Se ne accorsero anche i comandi dell’esercito anglo-americano e ne prese atto il legittimo governo italiano che, dopo la liberazione di Roma nel giugno del ’44, tornò ad insediarsi nella capitale d’Italia con la presidenza di Ivanoe Bonomi, mentre il re Vittorio Emanule III aveva ceduto la luogotenenza al figlio Umberto.

Alleati e governo italiano si dichiarano allora disponibili ad aiutare maggiormente il movimento partigiano, il primo con armi e munizioni, il secondo con una dotazioni di mezzi finanziari, a condizione di avere un uomo di loro fiducia al vertice del Comando generale del CVL. Per tale vertice designarono il generale Raffaele Cadorna, che proveniva dalla famosa dinastia militare dei Cadorna e che a capo della Divisione corazzata Ariete il 9 settembre ’43 aveva cercato di difendere Roma dall’occupazione tedesca.

(gen. Raffaele Cadorna)

Il CLN AI dopo varie discussioni accettò, il Cadorna venne paracadutato in Val Camonica ed il 6 settembre del ’44 s’insediò a capo del Comando Militare del CVL, sostituendovi il generale Bellocchio. Che non gradì l’operazione ma rimase a disposizione del movimento partigiano e accettò l’incarico di Capo del Comando Piazza di Milano.

Il Comando Piazza, in quella che era la capitale della Resistenza, aveva la responsabilità di dirigere o comunque coordinare le formazioni e le azioni dei partigiani a Milano e nella provincia e di predisporre il piano per l’insurrezione e la liberazione della città. Anche questo Comando, con al vertice Bellocchio, era composto da esponenti designanti da ognuno dei partiti politici antifascisti, esponenti che variarono nel tempo e ai quali facevano capo le diverse funzioni, quali vice-comandante, capo ufficio operazioni, capo servizio informazioni, nonché la funzione di commissario politico che fu sempre rivestita da esponenti comunisti.

Il Comando durante la sua vita, cioè fino alla fine dell’aprile ’45, potè successivamente avvalersi, in particolare per la predisposizione del Piano insurrezionale, anche del contributo di diversi ex ufficiali dell’esercito: Bellocchio nella sua relazione ne elenca nominativamente diciotto, fra cui diversi colonnelli. Gli aderenti attivi alla Resistenza nel settembre ’44 a Milano furono calcolati in 7.700 e in 3.700 quelli nel restante territorio della provincia, che comprendeva la Brianza, Monza e il lodigiano fino al confine con la provincia di Piacenza. Vennero calcolati complessivamente in quasi 30.000 nell’aprile del ’45, probabilmente esagerando, tenuto conto che molti partigiani dell’area milanese avevano raggiunto ed erano inseriti nelle formazione partigiane della montagna, compreso quelle piacentine.

Naturalmente le azioni partigiane a Milano e nel circondario erano diverse da quelle praticate in territori appenninici come quello nostro, anche se non meno rischiose. Consistevano in sabotaggi, nellla sottrazione di armi ai nemici, in attentati ed altri atti dimostrativi per intimorirli e renderli insicuri, realizzati in genere nelle ore notturne.

Gli aderenti alla Resistenza a Milano erano organizzati in parte nei GAP , (Gruppi di Azione Patriottica) costituiti ognuno da pochissimi membri che compivano le azioni più pericolose e vivevano in clandestinità, nelle cosiddette Brigate mobili e nelle SAP (Squadre di Azione Patriottica), queste a larga composizione, in maggioranza di operai che di giorno andavano regolarmente al lavoro nella propria fabbrica.

La funzione del Comando Piazza si realizzò in particolare nel suddividere l’organizzazione partigiana a Milano in nove Settori con i relativi comandi e con specifici compiti, nel dare loro direttive di azione, nel creare un sistema informativo e una rete di collegamento, nel tenere i rapporti con corpi ancora inseriti nell’organizzazione del regime di Salò ma disponibili a collaborare con la Resistenza in particolare al momento dell’insurrezione, vale a dire il Corpo della Guardia di Finanza, dei Vigili urbani e dei Vigili del Fuoco.

Il Comanda Piazza provvide anche a ripartire e a far avere ai diversi raggruppamenti partigiani le risorse finanziarie che dal dicembre del ’44 furono forniti dal Governo di Roma al movimento tramite il CLN AI che le suddivideva fra i Comandi di Zona e i Comandi di Piazza, risorse che servivano, oltre che all’acquisto di armi, alla sopravvivenza dei partigiani che vivevano alla macchia, riducendo la necessità di ricorrere a requisizioni fra la popolazione civile. Compito, come ho detto, del Comando Piazza fu inoltre quello di predisporre il Piano insurrezionale della città di Milano, di cui, per merito di Bellocchio e di Londei, si dispone tutt’ora di una copia originale depositata al Museo del Risorgimento di Milano. La stesura ultima del piano consiste in 45 pagine dattiloscritte più una grande pianta di Milano con segnati i vari punti d’interesse.

Il piano si proponeva di organizzare, dislocare ed utilizzare le forze partigiane in funzione dei seguenti obiettivi:

a - ostacolare il ripiegamento dalla città di Milano delle truppe nemiche, apportando loro più perdite possibili;

b - distruggere o almeno immobilizzare le forze nemiche che sarebbero rimaste nella città;

c - occupare le strutture militari della città e quelle ammnistrative per poterle subito utilizzare ai fini dei patrioti e della popolazione;

d - garantire l’ordine e la sicurezza in città, provvedendo alla eliminazione o al fermo degli elementi nazi-fascisti;

e - occupare e proteggere gli stabilimenti industriali, i grossi complessi commerciali, nonché proteggere le opere essenziali per il funzionamento dei servizi pubblici.

Coloro che hanno poi scritto la storia della Liberazione di Milano si sono chiesti se tale liberazione sia avvenuta secondo quanto indicato dal Piano insurrezionale o se invece questo abbia avuto una funzione assai limitata. Chi parla bene del Piano è Luigi Longo in ben nove pagine del suo libro “Un popolo alla macchia”. Altri hanno scritto che aveva una impostazione troppo tradizionale e militare, dando dettagliate indicazione operative mentre le insurrezioni popolari si sviluppano con una propria dinamica, non pianificabile.
Il prof. Nuvolone sul numero di Archivum del 2005/2006 ha preso in considerazione e messo a confronto le diverse valutazione e ne ha concluso che il Piano ha rappresentato in ogni caso un valido supporto informativo per le forze impegnate nelle liberazione della città, ne ha assicurato una utile dislocazione di partenza e ha promosso il concorso di quelle altre forze militari disponibili alla collaborazione con i partigiani, concorso che è stato fondamentale per assicurare rapidamente l’ordine e la sicurezza e la ripresa dei servizi pubblici.

Quanto alla personalità di Bellocchio ed al suo ruolo nel Comando Piazza, ci è stata trasmessa soprattutto la memoria di una sua difficoltà a destreggiarsi fra le posizioni politiche degli uomini che lo affiancavano nel Comando di Zona e dei suoi contrasti con il generale Cadorna che era diventato il suo diretto superiore. Raffaele Cadorna nelle sue memorie ha scritto: “Anche nella Piazza di Milano era difficile conoscere la consistenza, la dislocazione e l’armamento delle forze clandestine. Convocammo più di una volta il generale Bellocchio ed il suo commissario politico per i chiarimenti del caso. Il bravo generale dava in escandescenze, incolpava l’anarchia dei partiti e le continue catture dei capi partigiani con conseguenti continue sostituzioni” . Ma chi ha lascito una testimonianza più ampia su Bellocchio è Amerigo Clocchiatti che gli fu a fianco per alcuni mesi come commissario politico.

Nel suo libro di memorie ha scritto:“Il Comando era diretto dal generale Bellocchio, piacentino di Bobbio, un uomo gigantesco, sanguigno, già avanti negli anni. Quante camminate con lui per Milano, quante conversazioni! Bellocchio si sfogava con me contro il generale Cadorna che lo aveva sostituito - diceva - senza meriti speciali, nel Comando Generale del CVL. Gli dovevo raccomandare continuamente di parlare più piano se non volevamo farci beccare, tanto si infiammava. Le due volte che Bellocchio ed io fummo chiamati a rapporto dal Comando generale del CVL, quelle riunioni si trasformarono in una diatriba furiosa fra i due generali. ll posto del generale Bellocchio - continua Clocchiatti - era ambitissimo e tutti facevano pressione su di me, tutti ne avevano uno migliore da mettere. Ma io lo difesi costantemente. Lui era monarchico ma si teneva al disopra di tutti i partiti.”

A Milano in particolare c’erano gli uomini del Partito d’Azione e del Partito socialista che rivendicavano un maggior peso negli organismi del movimento partigiano, mentre un comandante come Bellocchio che non s’intrometteva nei rapporti fra i partiti piaceva ai comunisti.

Un altro giudizio significativo su di lui è infatti quello espresso dal predecessore di Clocchiatti nell’incarico di commissario politico a fianco del generale, Italo Busetto, in una relazione in data 30 novembre ’44 di carattere riservato inviata a Longo quale capo delle Brigate Garibaldi e pubblicata in un volume di documenti relativi a quelle brigate. Scriveva Busetto: “Il generale comandante la piazza è figura di ufficiale onesto, corretto, semplice, non troppo uso alle schermaglie dell’attività politica. Non riesce ad assimilare le norme cospirative. (Ad es.) è in rapporto con il vicequestore Mancini della polizia fascista, essendosi lasciato aggirare dalle dichiarazioni di antifascismo di costui. Lo abbiamo messo in guardia”.

Posso aggiungere che erano diverse a Milano i funzionari pubblici che tenevano in quei mesi il piede in due scarpe e peraltro va dato atto che quel vicequestore non ha tradito il generale Bellocchio.

Giungiamo cosi ai giorni della Liberazione quando il generale bobbiese incappò nelle vicenda che lo amareggiò molto ed influì sulle sue scelte successive in rapporto al movimento partigiano e alla stesso ambiente militare. Il Comando Piazza negli ultimi tempi teneva le sue riunioni via via in luoghi diversi. A conclusione di una riunione si fissava la data ed il luogo di quella successiva. Un’ultima riunione si tenne il 24 aprile all’aperto in Piazzale Susa, quando il CLN AI non aveva ancora diramato l’ordine d’insurrezione. Secondo quanto ha scritto Bellocchio a quella riunione non potè essere presente perchè colpito da un febbrone; non conosceva pertanto il luogo del successivo incontro del Comando fissato per il giorno dopo in un edificio di via Carlo Poma. Il giorno dopo, 25 aprile, avvenne la mobilitazione generale contro le forze nazifasciste e anche una serie di collegamenti fra reperti e comandi saltarono.

Quando il generale Cadorna raggiunse il Comando di Piazza nel previsto recapito di via Poma non vi trovò Bellocchio e gli si dissero che era irreperibile. Cadorna seduta stante colse l’occasione per rimuoverlo dall’incarico e sostituirlo. Nel Comando era previsto che in caso d’impedimento subentrasse nelle funzioni il vice-comandante vicario. Cadorna nominò invece al posto di Bellocchio il generale Emilio Faldella.

Qualche giorno dopo, a Liberazione avvenuta, si venne a sapere che il Faldella era sì rimasto in disparte dal regime di Salò, rifugiandosi però in Svizzera da cui era tornato a Milano soltanto appena prima della Liberazione. Inoltre aveva partecipato come “volontario” alla guerra civile spagnola a fianco dei franchisti e su quella guerra aveva poi scritto un libro elogiandone la partecipazione dell’Italia fascista. Fu il socialista Sandro Pertini in particolare ad elevare grandi proteste contro la sua nomina alla direzione del Comando Piazza e a chiederne la rimozione.

Si era nei primi giorni di maggio. Il quattro Cadorna aveva ricevuto da Roma la comunicazione che era stato nominato dal Governo Bonomi Capo di S. M. dell’esercito italiano che si andava ricostituendo in tutto il territorio nazionale. Nelle sue memorie riconosce che al Comando Piazza di Milano in quei giorni si profilava una spiacevole situazione in conseguenza della nomina del generale Faldella, ma per rimediarvi decise non di riportare il generale Bellocchio al suo posto ma invece di sciogliere il Comando Piazza. Questo scioglimento sarebbe comunque avvenuto più avanti, ma Cadorna ne anticipò i tempi. Credo che la decisione dello scioglimento sia stata presa o comunque comunicata in una riunione descritta da Agostino Covati, riunione dopo la quale Bellocchio infuriato lasciò subito Milano e tornò a Bobbio in compagnia di Covati stesso e di Italo Londei.

Cadorna invece andò a Roma a ricoprire la carica di capo del nuovo esercito italiano. Nel 1948 diventerà senatore nelle liste della Democrazia Cristiana e sarà rieletto nelle elezioni del ’53.

(Relazione di Romano Repetti)


..dal Corriere della Sera del 14 febbraio 2017

Resistenza a Milano, così i partigiani prepararono l'insurrezione del '45

Una busta mai aperta nell'Ufficio storico dei carabinieri. Dentro il dossier datato febbraio 1945 che svela la mappa dell'insurrezione partigiana per liberare Milano: covi, mense, contraerea e centri militari nazifascisti

di Andrea Galli

(Partigiani in piazza Castello dopo la Liberazione)

Il Corriere ha letto il dossier, conservato in una grande, pesante busta ingiallita nell'Ufficio storico dei carabinieri, aperta adesso per la prima volta oltre settant'anni dopo e all'epoca consegnata ai propri vertici dagli ufficiali dell'Arma che, insieme agli altri partigiani (le Brigate Garibaldi, Matteotti, Mazzini...), organizzarono la liberazione della città culminata nel 25 aprile del 1945. La preparazione avvenne mesi prima e come conferma la data di questo «Piano generale per l'insurrezione di Milano» (che rappresenta il corpo centrale del dossier disvelato), essa fu definita il 15 febbraio di quell'anno. Con la scansione dettagliata delle fasi e delle modalità ; e soprattutto con l'elenco minuzioso degli obiettivi nazifascisti da assaltare.

Le Brigate in campo contro i nazifascisti

La città fu suddivisa in 9 «settori» di operazioni. La densità dei punti d'attacco necessitava di adeguati «soldati» e arsenali. I primi erano così ripartiti per settore (anche se parziali in quanto conteggiati a febbraio):

Duomo 2.022 unità ,

Garibaldi 558,

Venezia 1.209, Vittoria 1.120,

Vigentino 1.045,

Ticinese 813,

Magenta 1.647,

Sempione 1.579

e Sesto San Giovanni 1.902.

Quanto agli arsenali, il punto di partenza era preoccupante: «L'armamento è carente, specie quello automatico pesante, per le forze interne. Per le forze partigiane della montagna, invece, si può considerare completo». L'afflusso di rinforzi, dunque, sarebbe stato essenziale a condizione

di essere puntuale e di incontrare un'inerzia iniziale nella battaglia favorevole ai partigiani. C'erano anche pronti, entusiasticamente convinti ad andare fino in fondo, «venti vigili e cinquanta pompieri»; i carabinieri, che ebbero decisivi ruoli nell'assalto alle caserme occupate, furono cinquecento; ai poliziotti sarebbe spettata la gestione dell'ordine pubblico nella città nel caos. Ma in ogni modo, al di là dei numeri, della «dotazione» e della forza complessiva, sarebbero stati essenziali i tempi.

Anticipata da una fase pre-insurrezionale (con un'intensificazione graduale della guerriglia e del sabotaggio e con un'intensa propaganda per «fiaccare il morale del nemico e galvanizzare le nostre masse popolari»), la fase insurrezionale prevedeva di «lanciare, con la massima celerità possibile, forti pattuglioni alla conquista degli obiettivi eliminando i nazifascisti che li presidiano». Ogni settore avrebbe avuto «tribunali straordinari» per «giudicare i traditori fascisti e tutti coloro che, approfittando del periodo di emergenza, commettessero atti di delinquenza».

Gli obiettivi erano di due tipologie: prima e seconda fascia. Nella prima c'erano «Comandi tedeschi e fascisti, caserme, alberghi ed edifici organizzati a difesa, depositi militari, aeroporti, centrali di collegamento, abitazioni dei capi tedeschi e fascisti...». Nella seconda c'erano «uffici politici e amministrativi, stazioni ferroviarie, rimesse tranviarie, banche, sedi e tipografie di giornali, uffici postali...». La «mappa» contemplava ulteriori e variegate voci: una postazione della radio tedesca in via Rovani, il deposito di benzina di via Adige 14, il magazzino generale dei viveri in via Delfico, il circolo-bar dei tedeschi in via San Paolo 8, la contraerea in piazza Bossi, il Comando delle prigioni militari in via Pellico, la mensa tedesca di via Meravigli e quella (esclusivamente per gli ufficiali) di via Domenichino 48, il distaccamento delle Brigate nere all'Arena, il magazzino per il vestiario dei soldati allo scalo Farini. Erano numerosi i centralini telefonici, da via Belfiore 13 a Via Novara 228, e le basi della Guardia nazionale repubblica (uno era in piazza Napoli 22). Dopodichè c'erano i covi e non sempre erano noti: uno, conosciuto, si trovava in via Paolo da Cannobio ma per scoprire quelli segreti bisogna insistere, si raccomandava il Comando, con indagini e attingendo alle spie che facevano il doppio gioco, ovvero frequentare i tedeschi (succedeva in alcune caserme) per carpire informazioni utili alla Resistenza.

Naturalmente, vista oggi, la liberazione di Milano pare una cosa ovvia che sarebbe comunque avvenuta. Ma nell'inverno del 1944 gli Alleati avevano parecchio faticato tra Ravenna e Bologna e le sorti conclusive dello scontro non erano affatto scontate. Allo stesso modo il «Piano generale per l'insurrezione», essendo la sintesi di una strategia militare, nulla concedeva alla fiducia in colpi di fortuna; ci si affidava ai fatti e alle eventualità da affrontare. L'eventualità , ad esempio, che i nazisti in rotta si sarebbero ritirati lasciando però in città «formazioni di fascisti di una certa consistenza, con l'intenzione di costituire centri di resistenza in determinati capisaldi». I partigiani si sarebbero gettati all'offensiva però i nemici controllavano molti edifici e potevano benissimo imbastire, perfino in una certa «sicurezza», una tattica attendista e contemporaneamente sferrare agguati a sorpresa cogliendo alle spalle i partigiani.

Al proposito, «siccome la situazione può verificarsi improvvisa» i Comandi di settore «faranno entrare immediatamente e con enorme energia le rispettive formazioni del Corpo volontari della libertà» per combattimenti corpo a corpo, metro per metro. Eppure, nel «rigore» della preparazione, i partigiani non nascondevano un lieve ottimismo convinti che avrebbero vinto raggiungendo tutti gli scopi.

Questi: «Apportare ai nazisti il massimo possibile di perdite e di danni, provvedere alla tempestiva eliminazione degli elementi fascisti, garantire la sicurezza e l'ordine proteggendo il patrimonio industriale, i grossi complessi commerciali, le opere d'arte e i centri essenziali per il movimento e per il funzionamento dei servizi cittadini».

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La Milano ferita andava riconquistata e subito messa nelle condizioni di tornare a vivere.

14 febbraio 2017

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